Il brutale assassinio a sangue freddo in Mali di due giornalisti francesi esperti, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, di Radio France Internationale, pone una questione che emerge sempre questi casi: perché i giornalisti vanno in zona di guerra? Non sarebbe meglio che se ne stessero nei loro uffici o a casa loro? E poi: perché lo Stato, in caso di rapimento o di ferimento (e purtroppo in questo caso di recupero di cadaveri), deve provvedere alle spese con soldi della comunità per aiutarli in caso di difficoltà? Chi pone queste domande di solito è poco avvezzo a cercare di capire quali motivi ci sono dietro le guerre, i conflitti, i massacri. Normalmente l’analisi si riduce a pensare che a muovere gli eserciti siano grandi e rispettabili ideali. Gli americani non erano andati in Vietnam con un’invincibile armata (nel momento di massima forza l’invasione ha potuto contare su mezzo milione di soldati) per difendere la democrazia e il progresso? Solo dopo si è capito che la ragione era un’altra, l’egemonia commerciale in quella regione.
E che dire della guerra contro Saddam Hussein. Certamente un brutale dittatore, ma comunque meno crudele della dinastia, che impedisce persino alle donne di guidare un’automobile, al potere in Arabia Saudita! Saddam però voleva gestire in proprio i pozzi di petrolio iracheni, Il re saudita invece ha ceduto il controllo dei suoi pozzi agli americani. Gli ideali si piegano a seconda della convenienza. Due pesi e due misure: duri con i nemici, comprensivi con gli amici.
Ora, chi ritiene che le guerre sia meglio combatterle lontano dai taccuini e delle telecamere dei giornalisti, sbaglia. I nostri occhi sono indiscreti e senza di essi le malefatte della guerra rimarrebbero riservate e segrete. Le fonti ufficiali dicono sempre solo quello che fa comodo, Negano le realtà scomode. Un esempio: gli americani in Somalia usavano proiettili vietati dalla convenzione di Ginevra. Lo scoprirono i giornalisti. La storia la scrivono sempre i vincitori e i vinti la subiscono. Solo i giornalisti possono raddrizzare le informazioni. I vincitori appaiono sempre buoni; i vinti sono sempre crudeli. Ma se leggiamo le cronache di tanti reporter sul campo, vediamo che le cose non sempre vanno così.
Chi scrive è stato rapito un paio di volte e ha rischiato di essere ammazzato almeno il doppio. Ho perso, trucidati, parecchi colleghi, alcuni dei quali erano fraterni amici, e non parlo solo di Ilaria Alpi (la chiamavo la mia piccola sorellina) ma anche di Jean Helene, Lello Ciriello o di Dan Eldon. Ho anche una condanna a morte da parte di un dittatore africano che mi odia per quello che scrivo su di lui. Non importa, continuo ad andare in guerra come fanno tanti colleghi che sentono il valore sociale di questo lavoro pericoloso. Occorre informare il pubblico far sapere cosa sono la violenza, le sofferenze della popolazione, rivelare i massacri, portare a galla tutto ciò che i comandanti dei combattenti vogliono tenere segreto.
Ho conosciuto Ghislaine, ci siamo incontrati un paio di volte. Abbiamo scambiato qualche battuta. Niente di più. Ma sono sicuro di una cosa: nessuno l’avrebbe convinta a cambiare lavoro.
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