Se oggi il Senato deciderà la decadenza di Berlusconi, l’Italia dovrà chiedersi se festeggiare il 25 luglio o prepararsi ad affrontare un altro 8 settembre. All’occhio del cronista non sfugge che il 25 luglio i ritratti di Mussolini erano a terra, ma, almeno per qualche giorno, quelli del re e di Badoglio s’affacciavano dappertutto. Ieri, davanti a Montecitorio, tra i malati di Sla e i sostenitori delle loro richieste, a terra c’erano i ritratti di Napolitano e di Letta, macchiati di vernice. Siamo un paese incompiuto: il dittatore che ci aveva imposto la prova della guerra “sarebbe morto nel suo letto”, si diceva, se solo ce l’avesse risparmiata. A Berlusconi, i suoi fautori, che sembrano addirittura crescere nei sondaggi, non imputano niente. Ci siamo divertiti insieme a lui. Abbiamo continuato per vent’anni a sognare quel che avevamo sognato davanti alle sue tv, così voluttuose a fronte del tetro grigiore della Rai. I guai del paese? Se i comunisti non mangiavano più bambini, c’erano i magistrati toghe rosse, l’invidia sociale dell’opposizione, poi l’euro, la Merkhel, la decisione di restare nella moneta unica, Napolitano col suo tentativo in extremis di salvare la barca chiamando Monti; e poi Monti che non riuscì a riempirci le tasche vuote, e ancora il Quirinale con le sue larghe intese: ma non larghe fino a comprendere il salvacondotto per l’ex Unto del Signore, il colpo di spugna sul malaffare del ventennio. E oggi i sondaggi dicono che quel malaffare vuol difendersi fino all’ultima trincea: e i feudatari e gli stracci del Sultanato vi accorrono, come nel 1943, per impedire il ritorno dei vecchi partiti e per riprendersi, se non l’onore “tradito”, i frutti della vittoria promessa da Berlino e Salò con le armi segrete.
Le armi non tanto segrete del ventennio berlusconiano hanno permesso al dieci per cento del paese di impadronirsi della metà della ricchezza. All’altro novanta, povertà crescente e tasse da strozzini. Non un pulpito s’è levato a dire “basta”. Neanche quando, come presentendo la disfatta, le sedi private del sultanato vivevano gli ultimi giorni di Pompei, con redivive Semiramidi e Messaline di silicone. L’Italia si divertiva della politica cochon, come prima aveva tollerato tangentopoli. Ma soprattutto vedeva in quel che accadeva la giustificazione plateale dei propri sentimenti inconfessabili o praticati nell’ombra. L’Italia era tornata il paese dell’allegria. Nessuno che volesse riascoltare una delle tante profezie disperate di un Montanelli, in questo paese che i Savanarola preferisce bruciarli e tenersi il papa incestuoso e simoniaco: “Ti abbraccio, caro Silvio, e che Dio ti salvi da Berlusconi”. Si chiudeva la lettera del direttore al suo editore (13 ottobre 1993), dopo l’ultimo tentativo del “vecchio” di tener lontano il Cavaliere dall’azzardo di scendere in campo, a giocare, in prima persona, quel poker dove il piatto è la vita stessa, e che fino al giorno prima aveva giocato attraverso altri attori-padroni-dipendenti.
“E’ tutta colpa dei traditori, se no Mussolini vinceva”, sentivamo dalle bisbetiche sdentate nei nostri paesi d’infanzia. Oggi invece di bisbetiche sdentate c’è il blocco sociale che le damazze ricche e i loro straricchi cavalieri guidano alla difesa degli interessi. Gli interessi sono la bandiera del nuovo 8 settembre. Del resto, cosa potrebbe disarticolare quel blocco sociale e restituire alle destre l’idea del pensare? Pensare il partito dello Stato? Le tricoteuses di Grillo? La democristianeria di Casini? Il neofascismo? Le ancora amletiche intenzioni di Alfano se passare o non il Ticino? Forse Renzi. Ma gli manca il cielo sereno che non accumuli nuvoloni nostalgici degli sconfitti del ventennio. Per ora Renzi fa la voce grossa con Letta, e Cuperlo ha ragione di dirgli “Non dobbiamo essere la faccia buona della destra”. E ha ragione anche Renzi di replicare “Non dobbiamo essere la faccia cattiva della sinistra”: quella che in vent’anni non è riuscita a far muovere d’un passo il conflitto d’interessi, il monopolio dell’informazione, imporre almeno una delle riforme che ora chiamiamo “sagge”: insomma tutto ciò che ha alimentato il qualunquismo degli interessi. Per due volte, tuttavia, il richiamo della foresta ha fallito. La prima e la seonda volta si chiamò Prodi. Ora potrà chiamarsi Renzi. Tutto sta a vedere se saprà spiegare che essere, com’è il Pd, il “partito dello Stato”, non è una colpa come crede Grillo, ma l’unica ciambella che ci tiene a galla.