Sergio Materia
Nell’attuale spaventoso vuoto di politica non possiamo permetterci di trascurare, come sta accadendo, le parole di Papa Francesco sul tema della corruzione. Ne aveva parlato anche in altre occasioni, ma non lascia la presa.
Francesco, citando il Vangelo di Matteo, distingue tra il peccato e lo scandalo. Chi pecca ma si pente e chiede perdono, è un debole, si umilia. Chi invece dà scandalo continua a peccare, finge, vive una doppia vita. Tra costoro i corrotti. E chi ruba allo stato e ai poveri merita “dice Gesù, non lo dico io, che gli si metta al collo una macina di mulino e sia gettato in mare”.
Papa Francesco non si rivolge soltanto all’interno della Chiesa o ai soli fedeli. Parla a tutti, parla di politica e alla politica, attento come è evidente alle cronache italiane.
Parla allo stato, vittima della corruzione ma insieme responsabile del furto di giustizia verso i poveri. Allo Stato che, inerte o più spesso complice, tradisce ogni giorno il proprio compito e lascia che i corrotti si facciano beffe dei più deboli.
Nelle parole di Francesco, che sembrano richiamare quelle di don Milani, è chiara la messa in mora dell’autorità politica perché non sia più, come troppo a lungo è stata, debole con i forti e forte con i deboli. L’ immagine simbolica e durissima della macina da mulino evoca l’esigenza di una nuova politica che persegua e sanzioni la corruzione, in tutte le sue forme ed espressioni, con la giusta e necessaria fermezza.
Il Papa parla dell’inganno verso i poveri, e questo è forse il punto centrale da un punto di vista politico. Perché lo Stato che con le proprie azioni ed omissioni non si preoccupa di tutelare i più deboli dalla rapacità e dalla protervia dei corrotti di ogni specie e anzi pare sempre premuroso verso le loro esigenze di sostanziale impunità, nega con ciò il fine che si è dato, rompe il patto con i cittadini, lascia che la società sia terreno di conquista per grandi e piccoli malfattori. Toglie ulteriore legittimità a qualsiasi scelta di governo della cosa pubblica e soprattutto a quelle che impongono nuovi pesi ai meno tutelati, ledono la loro dignità ed aggravano le disuguaglianze sociali ed economiche. E insieme legittima e dà giustificazione a quello che Gramsci (Quaderni dal carcere, 14) definì come sovversivismo popolare, «correlativo al “sovversivismo” dall’alto, cioè al non essere mai esistito un “dominio della legge”, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo» (…) «Il settarismo negli elementi popolari corrisponde allo spirito di consorteria nelle classi dominanti, non si basa su principi, ma su passioni anche basse e ignobili e finisce coll’avvicinarsi al “punto di onore” della malavita e all’omertà della mafia e della camorra».
Del degrado crescente del civismo degli italiani la politica, anzi lo Stato, è gravemente responsabile. Ed estirpare la cultura mafiosa di troppi nostri concittadini diventa impresa proibitiva, considerata anche la sua dimostrata funzionalità agli interessi della politica peggiore in molte parti d’Italia, e non solo al sud.
I nostri politici, affaccendati nelle miserevoli questioni interne ai partiti, sembrano non preoccupati dello scollamento tra cittadini e istituzioni, e comunque incapaci di cogliere la gravità della situazione, impantanandosi in stucchevoli affermazioni che, adeguandosi al lessico e agli stereotipi comunicativi in voga nell’ultimo ventennio, usurpano in modo tartufesco i sacrosanti temi del garantismo e, consapevolmente o no, sono funzionali ad eludere ogni volta, e in modo ormai intollerabile, il dato politico di fondo.
Colpisce, ad esempio, che la disputa per la guida del Partito Democratico trascuri completamente la questione morale che pure Enrico Berlinguer sollevò già nel 1981 come dato politico centrale. Deprime il rendersi conto che ancora una volta, e mentre il tempo sta per scadere, al massimo il tema è ridotto ai costi della politica mentre emergono di continuo nuovi e sempre più gravi casi di gestione criminale e predatoria del denaro pubblico.
Questo è il vero “cupio dissolvi” di questi tempi. Una complicità più o meno consapevole o quantomeno una assoluta tolleranza da parte dei governanti e della intera classe dirigente per il diffuso e ramificato potere illegale che erode le istituzioni e le risorse pubbliche, mentre la parte più debole degli italiani è sempre più in sofferenza.
A meno che, e sarebbe ancora peggio, non si tratti di una implicita dichiarazione di impotenza; di una presa d’atto, anche negli ambienti meno compromessi delle istituzioni e della politica, della irreversibilità del degrado etico e politico del sistema. E dunque di una resa al contagio del malaffare, nutrito di e dalla politica, ormai vero potere politico diffuso e custode di segreti preziosissimi. A partire dalla P2 e dai suoi cascami, e dai poteri criminali ed eversivi che tanti servigi hanno reso al potere negli ultimi decenni.
Sarebbe necessaria una classe dirigente nuova e non compromessa, che facesse uso massiccio di macine da mulino, prima che la tenaglia fra sofferenze economiche e sociali e disgusto dei cittadini per la politica consegni il potere ai nuovi inquietanti populisti e ai loro imperscrutabili obiettivi di dominio delle istituzioni e delle coscienze.