Cresce il bullismo tra i ragazzi, spesso accompagnato a sessismo e omofobia. Ne è vittima uno studente su dieci.
Di Graziella Priulla
Sto girando molto per le scuole della provincia di Catania, dove tengo corsi di genere: ho parlato con decine e decine di insegnanti, ho incontrato migliaia di studentesse e di studenti.
Tutte le persone che incontro mi segnalano con grande preoccupazione la crescita esponenziale del tasso di violenza tra ragazzini e ragazzine, soprattutto nelle medie, ma non solo. Una violenza sessista e omofobica soprattutto; in complesso un clima di tensione, un’assenza di serenità, un’incapacità di rapporti distesi e paritari.
Nelle scuole si respira sfiducia. Le docenti si sentono impreparate sia a reagire sia a prevenire, sanno di esser lasciate sole e in gran parte fanno finta di niente. Molti dirigenti scolastici temono, parlandone, di danneggiare il buon nome dell’istituto. I genitori minimizzano, spesso spalleggiano i figli violenti. L’opinione pubblica si occupa d’altro. I giornali e le tv ne parlano pochissimo, e lo fanno solo in conseguenza di fatti estremi.
Sono problemi che nella loro cupa “normalità” rimangono nascosti, continuando a produrre vittime che hanno nel silenzio un’arma di impotente difesa. E’ proprio il silenzio a rendere possibile il perpetuarsi del problema. Si pratica il bullismo per ignoranza, collusione, complicità; il grande coro della comunità osserva ciò che succede e non interviene. Circa l’85% degli episodi – e sembra che ne sia vittima uno/una studente su dieci – avviene in presenza o addirittura con l’appoggio del gruppo dei pari. La metà degli/delle adolescenti testimoni, a scuola come online, dichiara di non essere intervenuto a favore della vittima per paura delle conseguenze.
Non ci sono le parole di chi subisce, arrendendosi a quel facile potere che diventa vessazione. Non ci sono le parole del persecutore, che utilizza la violenza verbale e fisica perché non sa dire in altro modo la sua vulnerabilità, che è spesso il risultato di una storia di vita con poche risorse educative ed emotive. Non ci sono nemmeno le parole degli adulti, di coloro cioè che dovrebbero presidiare il campo della crescita e dell’educazione osservando, promuovendo, regolando.
Che se ne parli nei nostri incontri, è già molto.
Sono – ovviamente – la famiglia e la scuola a doversi attivare. Ad attrezzarsi per leggere anche i primi segnali. A prevenire, oltre che intervenire.
E’ bastato un post su Facebook, sabato mattina, e in poche ore ho ricevuto moltissime segnalazioni. Mi dicono che la situazione è la stessa in molte parti d’Italia.
Perché, dice un ragazzo, Se non hai un carattere forte non riesci a tirarti indietro.
In una scuola una ragazza si domanda: Ma ormai che possiamo fare?
ORMAI: questa parola è il loro mantra. Un’intera generazione si sente condannata alla rassegnazione, all’impotenza, e questo mi fa paura.
È provato che la chiave per affrontare il problema del bullismo è l’adozione di una politica scolastica integrata, cioè un insieme coordinato di interventi che – con la capacità di comprendere le cause del fenomeno, ma senza inutili buonismi – coinvolgano tutte le componenti, e nella quale gli adulti della scuola (inclusi i genitori) si assumano la responsabilità della relazione con i ragazzi. Esistono reti di specialisti cui si possono rivolgere (ma di cui stranamente ignorano l’esistenza), centri antiviolenza che li possono appoggiare (ma non ne conoscono gli indirizzi), esperienze positive da copiare (ma non vengono diffuse, non circolano).
Fare rete è essenziale, è la solitudine che uccide. Per il femminicidio, come per ogni altra violenza endemica.
E’ provato – nel contesto più generale – che è determinante una riprovazione sociale che emargini i violenti. Per questo le giornaliste di GIULIA possono fare molto.