“Quell’evento non fu una tragica, inevitabile fatalità, ma drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità“, sono le parole di Giorgio Napolitano nel giorno della commemorazione del disastro del Vajont. Parole chiarissime, che spingono a capire e spiegare fino in fondo quel che avvenne la sera del 9 ottobre 1963. Perché il Vajont fu una tragedia ben annunciata, frutto di un azzardo voluto dai costruttori con la complicità dei tecnici e del governo di allora: per soldi e profitti,sulla pelle di una intera vallata. E nella quale, l’informazione, la politica, la tecnica e l’università asservita all’industria, ebbero un ruolo fondamentale. Vecchi ed attualissimi vizi della nostra epoca, soprattutto in Italia. Ieri come oggi.
Erano le 22,39 di 50 anni fa esatti, sugli schermi in bianco e nero della Rai si trasmetteva in differita la finale di Coppa dei Campioni tra Glasgow Ranger e Real Madrid; i bar erano piani,oppure si stava in casa,cominciava a fare freddo, quando quello che la gente di Longarone,Erto,Casso diceva da sempre, accadde come una strage annunciata. 270 milioni di metri cubi di roccia scivolarono dalla montagna alla velocità di 108 Km/h nel bacino artificiale del Vajont che conteneva,in quel momento, 115 milioni di metri cubi d’acqua,provocando un’onda di piena tricuspide che superò di 200 metri in altezza la Diga. Circa 30 milioni di metri cubi d’acqua, un’onda gigantesca con una forza ed un’onda d’urto paragonata alla bomba atomica di Hiroshima, si riversò in 20 secondi nella valle del Piave,provocando una scossa sismica,distruggendo tutto e coprendo con metri e metri di fango il paese di Longarone e le frazioni vicine. …
I morti furono 1917,forse 2000 perché di molti non furono mai trovati nè i corpi,né una traccia. Una frana da quel monte TOC il cui nome deriva,nella tradizione popolare, da Patoc che in friulano significa ‘marcio’. Tutti sapevano o temevano, dunque: anche per la denuncia di una coraggiosa giornalista dell’Unità,Tina Merlin che ne aveva scritto due anni prima della tragedia, denunciando proprio il pericolo di una frana nel bacino del Vajont. Invece che ascoltare quella denuncia,la giornalista fu oltraggiata per “sciacallaggio”,denunciata dalla Ditta costruttrice, la SADE, e processata per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. “Fui assolta” disse qualche tempo dopo Tina Merlin,” ma quel che conta è che nella sentenza di assoluzione il giudice scrisse che quello che avevo scritto era la verità e che quindi il pericolo esisteva” . Ma la giornalista Merlin era dell’Unità, ex partigiana, quindi quella contro il pericolo della frana, diventò una battaglia ideologica contro il “disfattismo” comunista. Invece che andare a vedere fino in fondo quel che poteva succedere,la ditta costruttrice, la SADE di Venezia,il governo dell’epoca, lo stesso Indro Montanelli ( che poi anni dopo ammise il suo errore), attaccarono la giornalista ed il giornale su un piano ideologico, preconcetto ,di “guerra alla modernizzazione, all’industria”.
Purtroppo bastava stare ai fatti, come fece Tina Merlin: perché ci furono molte frane nel bacino artificiale del Vajont prima di quella fatale del 1963; la più grossa 3 anni prima, il 4 novembre del 1960, con 800mila metri cubi di roccia che si staccò dal monte Toc franando nell’acqua del bacino, un avvertimento quell’onda di 10m metri d’altezza che fece già allora una vittima, il guardiano dell’invaso. Invece niente; nonostante anche dai geologi che avevano compiuto le prime perizie cominciassero ad arrivare i primi dubbi, consigliando di non fare il collaudo riempiendo il bacino oltre i 600 metri di altitudine. Invece si arrivò a collaudare la diga sino a 715 metri, causando la tragedia. Ma il collaudo si doveva fare,altrimenti non sarebbero stati incassati i fondi dello Stato che per contratto potevano essere elargiti solo a diga ed apparati di produzione dell’energia elettrica perfettamente funzionanti.
La storia di quella diga del Vajont e delle quasi 2000 vittime è per questo una storia di soldi e di profitti , che veniva da lontano. La SADE, Società Elettrica Veneta di proprietà del Conte Volpi di Misurata, ex ministro fascista riciclatosi dopo il 1943 con generose elargizioni di denaro a favore dell’antifascismo veneto , aveva fatto fare il primo progetto di diga nel 1937, poi se lo fece approvare appena dopo l’8 settembre 43. Progetto sospeso e riapprovato definitivamente nel 1948, alla vigilia delle prime elezioni politiche del dopoguerra, grazie ai ministri veneti democristiani dell’epoca. Progetto sempre presentato sulla base di una relazione del famoso geologo Giorgio Dal Piaz che escludeva, ed escluderà sempre, pericoli di frane. Si cominciò a costruire la diga nel 1957 e già alcuni geologi,come il tedesco professor Leopold Muller, cominciarono a tenere sotto controllo quel monte Toc, del quale si parlava di una frana di origine preistorica ancora attiva. Ma sempre smentita dai geologi della SADE. Eppure dopo la frana de 1960 il progettista ingegner Carlo Semenza, chiese al figlio geologo uno studio su un modello in scala,che fu affidato al professore Augusto Ghetti, dell’ l’Università di Padova. Si scoprì l’esistenza di quella frana: non solo si capì che quel monte era instabile, la roccia friabile. Addirittura si calcolò con una precisione impressionante il volume di terra e roccia che si poteva staccare dal monte ,la quantità di acqua che poteva scendere a valle e dei danni quindi che poteva produrre. Ma di quello studio si fecero due copie,una,quella della SADE, più rassicurante, andò al ministero; quella vera restò nei cassetti dell’Università. Anche se il geologo figlio, Edoardo Semenza ne parlò al progettista-padre Carlo Semenza, che cominciò a scrivere lettere preoccupate alla Sade, temendo il disastro che poi arrivò, puntuale. Ma la relazione vera dell’Università di Padova, doveva essere nascosta.Ed in questo ulteriore scandalo legato al Vajont si insinua un’altra incredibile vicenda. Un tecnico dell’Università, Lorenzo Bussetto,che aveva visto la “falsificazione” di quel rapporto, trasmise di nascosto le vere carte che denunciavano il pericolo ad un deputato bellunese del PCI, l’onorevole Franco Bussetto. Fu lui a indire due interrogazioni al ministro dei Lavori pubblici il 20 novembre del 1960 e il 19 gennaio del 1961 perché si prevenissero “i pericoli che sovrastano le popolazioni di Erto – Longarone e paesi limitrofi per i movimenti di terreno già verificatisi nella zona del lago artificiale del Vajont“. La minoranza, ricordò poi Bussetto in un’intervista , all’epoca era malvista e bollata come comunista, “si tendeva” disse “ a non dare voce alle loro interrogazioni”. Ne riparlò di nuovo Tina Merlin sull’Unità (eravamo intanto nel 1961-62),ma inutilmente. Tutto finì insabbiato fino a quel 9 ottobre di 50 anni fa. Il tecnico,Lorenzo Bussetto, fu invece arrestato e processato, come se fosse un delinquente,invece che premiato per la denuncia che aveva fatto, ben prima del disastro più che annunciato! Per fortuna venne poi assolto, ma per 20 anni non ha mai rivelato il suo gesto coraggioso, neanche dopo la tragedia del 9 ottobre di 50 anni fa, per paura ,forse, di ritorsioni sul suo lavoro all’Università. Questo era il clima. Come disse il GIP di Belluno, Mario Fabbri che istruì poi il processo, “si scoprì un chiaro,evidente asservimento della scienza all’industria…ci si poneva molto spesso in totale sintonia con il potere economico che coincideva poi con il potere politico”.
Perché altrimenti le azioni della Sade sarebbero crollate ed in vista della nazionalizzazione dell’Energia Elettrica, la Sade sarebbe stata valutato molto meno delle aspettative dei padroni della SADE stessa. Di nuovo motivi economici, di nuovo speculazioni sulla pelle degli ignari ma già impauriti abitanti dei paesi a valle della diga. Adriana Lotto, presidente dell’Associazione “Tina Merlin”, che in questi giorni ha criticato la decisione del Senato di proclamare il 9 ottobre data in cui si commemora “l’incuria”,perché “il Vajont, infatti, non fu semplice incuria”, ha ribadito a chiare lettere:” La scelta di portare a termine l’opera a tutti i costi, nonostante vi fosse la consapevolezza dei gravi rischi presenti, fu determinata dai forti interessi economici. Il subentro dell’Enel alla Sade prevedeva il pagamento degli impianti funzionanti. Per questo il complesso del Vajont doveva entrare in funzione ad ogni costo!”
Così la diga del Vajont continuò ad essere collaudata, anche oltre la soglia di rischio nonostante la montagna cominciasse a scendere a valle alla velocità di 4 metri l’anno, tra la paura di quelle che poi divennero le vittime,là a Longarone. Persone che anche dopo la strage del 1963,furono beffate. Per cercare di riavviare l’economia locale a seguito della tragedia, il Parlamento approvò la legge n. 357/1964 (detta “Legge Vajont”): essa prevedeva che ogni abitante dei comuni colpiti che fosse dotato di una licenza commerciale, artigianale o industriale al 9 ottobre 1963 venisse dotato di un contributo a fondo perduto del 20% del valore dell’attività distrutta, un ulteriore finanziamento pari all’80% a tasso di interesse fisso per la durata di 15 anni, e che per 10 anni venisse esentato dal pagamento dell’imposta sulla ricchezza mobile. Se poi il beneficiario non avesse potuto o voluto ricominciare a svolgere l’attività precedente, aveva il diritto di cedere a terzi la licenza, i quali godevano delle stesse esenzioni e vantaggi a condizione di operare in un’area che inizialmente corrispondeva a quella del disastro, ma che poi venne estesa all’intero territorio delle regioni in qualche modo interessate (Trentino, Veneto, Friuli – Venezia Giulia). Fu così che aziende ed imprese del tutto estranee alla vicenda, acquistando le licenze in oggetto per prezzi irrisori, poterono godere di finanziamenti pubblici particolarmente rilevanti, inizialmente destinati alle vittime.
Il processo poi, non diede mai giustizia alle vittime: fu un processo politico caricato da forti pressioni dall’industria,per chiudere in fretta le indagini. Lo ha rivelato recentemente il Gip di allora,Mario Fabbri: «Venne nel mio ufficio un giovane avvocato che si chiamava Giovanni Leone – ha raccontato – che mi disse di poter mettere sul tavolo 10 miliardi di vecchie lire per i risarcimenti». L’obiettivo del parlamentare democristiano, futuro capo dello Stato, era evidentemente quello di chiudere in fretta il caso, pagare i superstiti e sottrarre dall’azione penale i responsabili della immane tragedia. Di più. Il giudice Fabbri ha raccontato anche un altro aneddoto che la dice lunga sulle pressioni esercitate dal potere politico, servile nei confronti del potere economico della Sade. «In un viaggio in aereo stavano seduti dietro a me due parlamentari bellunesi esponenti della Dc che discutevano su come “far togliere l’indagine a quel giudice”. Allora mi alzai e mi presentai, dicendo che erano arrivati troppo tardi, perché essendo stato nominato giudice e la mia posizione era divenuta inamovibile. Bastava che si fossero attivati un paio di mesi prima ed avrebbero potuto trasferirmi dove volevano». Il processo finì all’Aquila per “legittima suspicione”. Il 20 di febbraio 1968 il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, depositò la sentenza del procedimento penale contro Alberico Biadene, ingegnere Sade e responsabile del progetto dopo la morte di Carlo Semenza; Francesco Sensidoni, Ingegnere capo del Servizio Dighe del Ministero e membro della Commissione di Collaudo Scheda; Mario Pancini, Pietro Frosini, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e Augusto Ghetti. Penta e Greco, nel frattempo erano morti, mentre Pancini si tolse la vita il 28 novembre di quell’anno,il giorno prima del processo di primo grado che si conclude il 17 dicembre del 1969. L’accusa chiese 21 anni per tutti gli imputati (eccetto Violin, per il quale ne vennero richiesti 9) per disastro colposo di frana e disastro colposo d’inondazione, aggravati dalla previsione dell’evento e omicidi colposo plurimi aggravati. Biadene, Batini e Violin vennero condannati a sei anni, di cui due condonati,per omicidio colposo, colpevoli solo di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo sgombero; assolti tutti gli altri. La prevedibilità della frana non venne riconosciuta .Il presidente della corte, definito “bizzarro” da voci benevole, fu poi cacciato dalla magistratura pochi anni dopo. Ma quella sentenza sul Vajont arrivò sino in appello e Cassazione.
Il 26 luglio 1970 iniziò all’Aquila il Processo d’Appello, con lo stralcio della posizione di Batini, gravemente ammalato di esaurimento nervoso. Il 3 ottobre la sentenza riconobbe la colpevolezza di Biadene e Sensidoni, che vengono riconosciuti colpevoli di frana, inondazione e degli omicidi. Vengono condannati a sei e a quattro anni e mezzo (entrambi con tre anni di condono). Frosini e Violin vengono assolti per insufficienza di prove; Marin e Tonini assolti perché il fatto non costituisce reato; Ghetti per non aver commesso il fatto.
Finì tutto nel 1971 in Cassazione, con la conferma delle condanne; per i giudici fu solo omicidio colposo,per non aver avvertito la popolazione del pericolo e fatto sgomberare i paesi, quel giorno di 50 anni fa,che ,invece, segnò uno dei punti più bassi della industria,della tecnica e della politica in quegli anni del boom economico italiano. Ma quella frana ha insegnato poco: a Longarone ed in tutta la valle la ricostruzione ha mangiato territorio, aggredito non solo l’ambiente, ma la natura stessa del territorio. Mentre, 50 anni dopo, si parla ancora in Italia di giornalisti comunisti quando fanno denuncie sulla pericolosità dell’inquinamento ambientale, arrivando,purtroppo, a mettere sotto scorta quei giornalisti e scrittori che denunciano le gravissime forme di aggressione al territorio da parte della camorra e delle mafie varie, come avviene in questi mesi nella “terra dei fuochi2 in Campania.
La storia non ci ha insegnato niente: o meglio, sono in troppi e con troppi interessi, coloro che non vogliono imparare da una storia come quella del Vajont.