Diversamente dalle “emittenti radiotelevisive” private che si muovono in una logica tendenziale di libertà, la s.p.a. RAI, ancorché assoggettata a norme privatistiche quanto alla sua organizzazione e amministrazione, persegue – in quanto integralmente in mano pubblica – delle “funzioni”, e cioè degli obiettivi doverosi. Pertanto, mentre la programmazione di servizio pubblico è caratterizzata dal doveroso rispetto di indirizzi e di limiti sia modali che contenutistici, altrettanto non può dirsi per le emittenti commerciali.
Di qui l’importanza dell’iniziativa di Articolo 21 e della Fondazione Di Vittorio di rivolgersi agli studenti delle scuole superiori e universitari per tentare di definire, con il loro contributo, la nuova “carta d’identità” della Rai e cioè quali siano «i suoi compiti e i valori ai quali ispirare la sua programmazione».
Bisognerà però avvertirli – nonostante quel che si desume dalla bozza del contratto di servizio 2013-15 – che, in forza dell’art. 1 comma 1 lett. m) del T.U. della Radiotelevisione, il servizio pubblico generale radiotelevisivo è esercitato dalla concessionaria «mediante la complessiva programmazione, anche non informativa». Il che corrisponde a quanto previsto nel Protocollo n. 32 annesso al Trattato di Amsterdam il quale, per l’appunto, esclude l’utilizzazione del canone soltanto con riferimento alle attività di «sfruttamento commerciale del servizio pubblico o di altre attività commerciali». E ciò per l’evidente motivo che se il canone venisse utilizzato anche per lo svolgimento di tali connesse attività commerciali, esso finirebbe per trasformarsi in “un aiuto di stato”, come tale vietato.
Bisognerà quindi chiarire agli studenti e, magari, ricordare agli stessi estensori del contratto di servizio 2013-15, che il servizio pubblico radiotelevisivo si risolve nella “complessiva attività” della concessionaria e non attiene ai “singoli programmi” (come sostenuto anni fa, ma senza successo, da Mediaset per ottenere, a tale titolo, una parte del canone d’abbonamento con riferimento a taluni programmi culturali da Canale 5, Retequattro e Italia Uno). L’attività di servizio pubblico della Rai ricomprende quindi l’intera programmazione radiotelevisiva (informativa, culturale, educativa, cronaca sportiva, intrattenimento leggero ecc.), come del resto è pacifico in Europa.
Di qui le forti perplessità che sollevano l’art. 1 comma 1 lett. m) e l’art. 18 comma 4 del contratto di servizio, i quali intenderebbero imporre alla Rai la riconoscibilità dei programmi finanziati col canone mediante una previa avvertenza apposta all’inizio e al termine dei programmi di servizio pubblico nonché con un bollino di un colore diverso da quello degli altri programmi (quale l’intrattenimento leggero: il mio pensiero corre con sgomento a programmi quali “Quelli della notte” e “Indietro tutta”!).
Resta però da chiedersi come debba caratterizzarsi la complessiva attività svolta dall’emittente di servizio pubblico. A mio avviso, fermo restando il rispetto, da parte di tutte le emittenti, delle norme del codice penale e delle norme professionali deontologiche, l’emittente di servizio pubblico dovrebbe differenziarsi sotto i seguenti tre profili: 1) la ricerca e l’innovazione tecnologica; 2) la “qualità” della programmazione (che ne giustifica, in tutta l’Europa, il finanziamento pubblico – totale o quanto meno prevalente -, come tale necessario perché il servizio pubblico, diversamente dalle emittenti commerciali, sfugga al “ricatto” dell’audience, e quindi eviti i programmi trash); 3) la “forma” con la quale i giornalisti e i conduttori dovrebbero sia intrattenersi con gli ospiti sia rivolgersi ai telespettatori (intendendo con ciò sottolineare – come sentenziò tanti anni fa il Tribunale costituzionale federale tedesco – che i giornalisti del servizio pubblico non sono, e non possono essere, “i signori della radio”). Infatti come ripugnano al servizio pubblico i programmi dal contenuto violento o provocatore, così altrettanto appaiono “fuori luogo” certi giornalisti o direttori di TG che manifestano un eccessivo personalismo.
Ed è appunto la ricorrenza di questi tre requisiti – necessaria per lo svolgimento del servizio pubblico radiotelevisivo – ciò che rende difficile la messa a concorso del servizio pubblico, come invece vorrebbe l’art. 23 della bozza del contratto di servizio. Non potrebbe infatti svolgere una siffatta funzione un’impresa adusa ad una programmazione “commerciale” essenzialmente rivolta all’incremento dell’audience. Il che, sotto altro aspetto, è però la sfida che il contratto di servizio pone alla Rai: quello di ritornare ad essere la più importante istituzione culturale italiana alla quale nessuno potrebbe negare l’ulteriore rinnovo della concessione di servizio pubblico.
Un’ultima osservazione. Dopo l’abrogazione, da parte della c.d. legge Gasparri, dell’art. 1 comma 2 della legge n. 103 del 1975 – secondo il quale «L’indipendenza, l’obiettività e l’apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali, nel rispetto delle libertà garantite della Costituzione, sono principi fondamentali della disciplina del servizio pubblico radiotelevisivo» -, la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo non ha più avuto dei principi suoi propri che ne caratterizzassero la missione. Non può infatti così qualificarsi quell’affastellamento di compiti che l’art. 3 del T.U della radiotelevisione denomina “Principi fondamentali”. Ebbene, ciò che si chiede ai giovani concorrente è anche questo. Nel descrivere la missione del servizio pubblico radiotelevisivo, dovrebbero porre le basi per individuare quali potrebbero essere i principi del servizio pubblico radiotelevisivo nell’epoca del “digitale”.
* Intervento al Convegno Articolo 21, Eurovisioni e Fondazione Di Vittorio, Roma, 12 ottobre 2013