Adesso è il momento delle lacrime, dei minuti di silenzio, della commozione e delle bandiere a mezz’asta. Per carità, il governo Letta ha fatto benissimo a proclamare un giorno di lutto nazionale per rendere omaggio alle innumerevoli vittime dell’ennesima tragedia avvenuta al largo delle coste lampedusane; e bene ha fatto la ministra Kyenge a invocare una radicale revisione della legge Bossi-Fini perché, come ha spiegato in un’intervista a “la Repubblica”, “per un ministro il dolore deve trasformarsi in azione”.
Peccato, però, e lo dico senza alcuna volontà polemica, che al governo e in maggioranza ci siano numerosi soggetti che le leggi repressive e dannose sull’immigrazione, che su queste colonne denunciamo da anni, non solo le hanno votate con convinzione ma le hanno anche difese a spada tratta, facendone addirittura oggetto del proprio programma di governo.
Allo stesso modo, è un vero peccato che gli ex alleati dei suddetti personaggi si siano permessi di attribuire la responsabilità morale della strage alla presidentessa della Camera, Laura Boldrini, e, per l’appunto, alla ministra Kyenge, colpevoli unicamente di star tentando di promuovere politiche sull’integrazione e l’accoglienza meno insulse di quelle perseguite in passato.
Perché è inutile girarci intorno: quelle centinaia di vittime ce le abbiamo sulla coscienza tutti noi, qualunque sia la nostra parte politica, perché solo ora, di fronte a una tragedia immane che segue ad altre decine di tragedie, stiamo iniziando ad accorgerci di quanto siano state sbagliate le nostre politiche, i nostri pregiudizi, i nostri applausi di fronte ad atti e decisioni che, al contrario, avrebbero dovuto suscitarci orrore e di quanto sia malvagio, ipocrita e detestabile il silenzio.
Sì, il silenzio, perché quei corpi che gridano dal fondo del mare hanno squarciato una volta per tutte il velo della nostra ipocrisia collettiva, disturbando con la propria presenza il nostro chiacchiericcio, le nostre beghe, il nostro litigare e accapigliarci continuamente sul nulla e anche i ricordi delle nostre campagne elettorali, basate solo su interminabili discussioni sulle tasse e mai su una visione chiara, precisa, organica della società, mai sulla dignità degli esseri umani, mai sul progetto di tornare a costruire quella comunità solidale in cammino che dovrebbe essere l’ossessione di tutti i progressisti e invece, da qualche tempo, si è trasformata nell’utopia di pochi sognatori, naturalmente sbeffeggiati e considerati degli illusi.
Come ha scritto Beppe Giulietti, infatti, “il problema non sta nelle parole di Francesco, ma nei silenzi degli altri”.
È esattamente così e fa male doverlo ammettere. Fa male perché tornano in mente le dichiarazioni di alcuni esponenti della mia stessa parte politica che, negli anni scorsi, non hanno esitato a inseguire la Lega sul suo terreno preferito, arrivando addirittura a elogiare le ronde o il tetto del trenta per cento di alunni stranieri per classe (pur sapendo benissimo che, per la maggior parte, essendo nati in Italia da genitori stranieri, quei bambini dovrebbero essere considerati italiani a tutti gli effetti).
Fa male perché nessuno di noi, prima della visita del Papa a Lampedusa lo scorso 8 luglio, aveva avuto il coraggio di denunciare la “globalizzazione dell’indifferenza”.
Fa male perché, per oltre un decennio, ci siamo lasciati accarezzare dall’assurda idea del capitalismo buono, del mercato solidale e del liberismo di sinistra, senza accorgerci di star pronunciando ossimori di cui non solo gli elettori non comprendevano il senso ma che hanno sortito come unico effetto quello di affievolire quel minimo di pensiero progressista che avrebbe potuto dare un tocco di umanità a un mondo sempre più ingiusto e diseguale.
Tuttavia, fa male soprattutto perché quei cadaveri che oramai non si contano più costituiscono la nostra coscienza recondita: la coscienza di un popolo che è stato per decenni un popolo di migranti; un popolo che ha conosciuto la fame, la miseria, le discriminazioni, gli insulti e talvolta addirittura la sedia elettrica; un popolo che sa cosa significhi abbandonare la casa, la famiglia, gli affetti più cari e tutto ciò che dà un senso alla vita di una persona per inseguire il miraggio di un futuro migliore altrove.
Forse adesso, con la Lega ormai prossima all’estinzione e Berlusconi con un piede fuori dal Senato, cominciamo ad accorgerci del tempo perduto, a interrogarci su quante cose avrebbero potuto essere diverse se, anziché andare a inginocchiarci di fronte a quel farabutto di Gheddafi, avessimo promosso una seria politica di cooperazione internazionale, coinvolgendo attivamente gli altri paesi europei; ma, soprattutto (voglio sperare) molti staranno iniziando a domandarsi come ci abbia ridotto la costante manomissione delle parole e dei significati cui abbiamo assistito come spettatori passivi negli ultimi vent’anni, al punto che la malvagità è divenuta sinonimo di realismo e la solidarietà umana è stata trasformata in “buonismo”.
Forse stiamo iniziando a chiedercelo, già, peccato che siamo costretti a farlo al cospetto di circa duecento bare, di un mare oramai ridotto a cimitero e di un’isola stremata e abbandonata a se stessa da un’Europa che finora ha dato prova di sapersi solo indignare e di una politica italiana che, nel suo complesso, non è andata molto al di là delle lacrime di coccodrillo.
Confidiamo certamente nella lungimiranza di Letta e nella saggezza della Kyenge; tuttavia, ci auguriamo che l’intera comunità nazionale cominci a riflettere sul senso di un’amara vignetta di Staino, in cui Lara domanda ingenuamente a un immigrato: “Perché vi mettete in mare se sapete che forse morite?” e questi risponde: “Per il ‘forse’”.