BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Progresso di classe, modello Brasile

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“Os loucos precipitam-se onde os anjos nao se atrevem a entrar”
“I dannati precipitano, laddove gli angeli non osano entrare” (murale all’ingresso di una favela)

Rio de Janeiro – Scrivo sul Brasile da circa un anno. Ho cominciato con Manaus, capitale dello Stato di Amazzonia, uno dei porti industriali più importanti del Sudamerica. Qui le attività si concentrano sul Rio Negro, il principale affluente del Rio delle Amazzoni, dove piattaforme galleggianti di rifornimento, e cantieri navali, si alternano a traghetti di pendolari e costose lance che portano in escursione i ricchi turisti di Rio e Sao Paulo. Nei pressi del porto, sacche di emarginati contendono i rifiuti a l’urubu negro, l’avvoltoio locale. Lungo il fiume, le favelas dei catadores do lixo, i ragazzini che sopravvivono riciclando le lattine vuote. La città all’interno è sommersa da cumuli d’immondizia, che solo l’opera continua di questi giovani riesce in parte a smaltire. Nello Stato di Bahia ho visitato la cittadina di Porto Seguro, dove nel 1500 sbarcarono le caravelle portoghese di Cabral; oggi è il centro turistico più gettonato del Brasile, ma intorno, nella foresta, resistono circa 300 indigeni dell’etnia Pataxò, quelli originari delle tribù sterminate dai conquistadores.
Nella capitale Salvador, una minoranza di bianchi (il 15% della cittadinanza) vive nel lusso e nei privilegi, alla faccia del resto della popolazione che si arrabatta in condizioni di miseria sub-sahariana. A Maceiò, capitale dello Stato di Alagoas, il centro ha perso la sua forza vitale, dal momento che la forza lavoro vive prevalentemente nelle periferie, vicino alle fabbriche o ai grandi alberghi. Intorno a monumenti storici abbandonati a se stessi, vegetano migliaia di persone, ammassate in baracche di lamiera e mattonato grezzo, galleggianti su un fiume infestato dalle zanzare della dengue fever, un surrogato della malaria. Nei casi peggiori, la gente frigge sotto teli di plastica sorretti da pali, sui quali il sole incombe africano. Eppure oggi il Brasile è la quarta potenza industriale del Pianeta.
Un Paese che ha visto, negli anni a seguire dalla sanguinaria dittatura militare, prima il varo della nuova moneta ufficiale, il reais (real), che sostituì il cruzeiro, svolta epocale del predecessore di Lula, Fernando Cardoso, vivendo poi il lungo mandato di Luiz Inàcio da Silva, detto Lula, divenuto Presidente del Brasile nel 2002, riconfermato nel 2006, per poi cedere lo scettro nel 2010, alla sua compagna di Partito Dilma Rousseff.
Presidente del Sindacato dell’Acciaio prima, e leader del PT (Partido dos Trabalhadores) subito dopo, Lula ha avuto l’innegabile merito di innescare una serie di riforme che hanno portato il Brasile a diventare uno di quei giganti economici, le cui percentuali di crescita del PIL nel 2010 arrivarono addirittura a sfiorare il 9%, inserendo la Nazione nella compagine dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina) imitati in Europa anche dalla Turchia del primo Ergodan, che riuscì a eguagliare quei vertici.
I media internazionali si sono accorti di queste contraddizioni solo grazie alle proteste, che sono esplose clamorosamente durante la Confederation Cup di calcio. Facciamo qualche passo indietro.

A tutto biogas
La mossa più importante dell’agenda Lula nei primi anni di governo, fu quella di riaffermare il ruolo del Brasile come potenza regionale del Sudamerica, in grado di assicurare ai suoi vicini quei pay-off necessari per acquisire una supremazia, soprattutto dal punto di vista delle garanzie economiche e geopolitiche, attraverso prestiti, finanziamenti, e mediazione diplomatica. Indipendente dal punto di vista energetico, e, come il Venezuela petrolifero, in grado di rifornire gli Stati bisognosi, per via dei biocarburanti ottenuti dalle sterminate coltivazioni di soia e canna da zucchero.
Soprattutto la produzione di etanolo, che nel 2007 raggiunse i 16 miliardi di litri, di cui circa tre destinati all’esportazione; Lula è stato anche il fautore del bio-diesel, dallo sfruttamento dell’olio di soia, che in breve ha sostituito quasi il 10% del fabbisogno annuo del gasolio sul territorio nazionale. Se è vero che l’etanolo, rispetto ai combustibili fossili, ha una copertura minore a livello chilometri percorsi, (circa 6/7 per litro, rispetto ai 10-12 del tradizionale) l’enorme vantaggio ecologico derivato dalla minore emissione di gas-serra, ne ha esaltato il ruolo, nell’ambito di un progetto di energia pulita, dovuta al fatto che le emissioni di CO2, nel caso dei biocarburanti, sono assorbite dalle colture di provenienza al momento dell’utilizzo. Allo stato attuale in Brasile, l’etanolo assicura la copertura energetica per più della metà dei veicoli leggeri che non usano il gasolio. Oggi il Brasile è medaglia d’oro per la produzione di etanolo (ha superato gli Stati Uniti) e medaglia di bronzo nel bio-diesel, coprendo oltre il 25% della produzione mondiale di soia.
Il rovescio della medaglia, è ancora pesante, soprattutto riguardo lo smodato sfruttamento del suolo a scapito dell’alimentazione, come nel caso della soia, oltre che della canna da zucchero, e la deforestazione selvaggia che ha caratterizzato negli ultimi anni patrimoni dell’ambiente quali la foresta amazzonica e il Mato Grosso, oggetti di un vero e proprio genocidio arboricolo.
Il superamento della crisi diplomatica con la Bolivia di Morales, durante la nazionalizzazione del gas naturale che coinvolse le raffinerie del colosso brasliano PetroBras, il saper ricucire il grave strappo con l’Argentina dovuto alle tariffe doganali protezionistiche applicate dallo stato confinante, riuscire a districarsi nei rapporti difficili tra il bolivarismo di Chavez, la politica pro USA di Uribe in Colombia, e la visione conservatrice di G.W. Bush, ha conferito a Lula un ruolo primario di intermediatore nel Sudamerica e nei confronti dei cugini del Nord. D’altra parte, i limiti di una leadership circoscritta a livello regionale, ben presto divennero insostenibili per il governo brasiliano, che doveva rendere conto non solo al suo elettorato operaio, ma soprattutto a quegli sponsor, indispensabili durante le campagne elettorali, quali la Fiesp, che, come la nostra Confindustria, rappresenta il nocciolo dell’industria nazionale, la dirigenza del sindacato metallurgico di Sao Paulo, e infine quella colonia nutrita d’imprenditori immobiliari del Nord Este brasileiro, soprattutto da parte di Recife, capitale dello Stato di Pernambuco, che negli anni a ridosso del primo mandato di Lula, fecero investimenti mostruosi fuori dai confini nazionali…oltre un migliaio di appartamenti, acquistati solo a Miami; considerando che una volta i brasiliani del Nord Est erano soprannominati “Paraiba” (lo stato più piccolo del Brasile, e anche il più povero, almeno fino a dieci anni fa) son stati compiuti, da allora, passi da gigante.
La conseguenza, soprattutto durante il secondo mandato, è stata quella di spostare il mirino della strategia politico-economica, dal Sudamerica agli Stati Uniti e all’Europa, sotto il profilo investimenti ed esportazioni.
E’ quella che venne in seguito definita come “global strategy” che, se da una parte ha reso il Brasile protagonista internazionale, gli ha però alienato dall’altra, le simpatie che Lula aveva ottenuto, durante i primi anni del mandato presidenziale, grazie alla sua visione “Pan Sudamericana”. E’, durante questa seconda fase, che si forma lo zoccolo duro di una nuova, aggressiva, classe medio/alta, che farà dell’impiego a basso costo della manodopera, una costante irrinunciabile, favorendo viceversa un mercato interno di beni di consumo a costi elevati; progressivamente, aumenta il costo della vita, che dal 2009 al 2012 raggiunge delle percentuali a due cifre, e prendono piede, a livello di municipi locali, tagli inesorabili del welfare sociale, dal momento in cui la classe dirigente si rende conto che anche la sanità e l’istruzione privata sono un business, e che business!

Fome zero
Alla fine del primo mandato, il Presidente traccia un bilancio della sua politica sociale, citando il programma  “Fome zero”
con il quale iniziò nel 2003 la nuova fase di assistenza, per alleviare le disastrose condizioni di vita dei ceti bassi. Rivendica il colossale investimento di 12 miliardi di Reais (circa 5 miliardi di euro), sforzo sostenuto però dalla Banca Mondiale, ai fini di garantire l’accesso a un’alimentazione completa agli strati più poveri della popolazione, una ridistribuzione del reddito più equa, una riduzione della povertà di circa l’8%. Questo risultato è attribuito al programma “Bolsa familia”, un’evoluzione successiva di Fome Zero, un pacchetto di aiuto monetario che è distribuito ai Municipi, con lo scopo di essere ridistribuito agli strati indigenti della popolazione. Le cifre, notevolmente gonfiate rispetto a quelle reali, parlano di altri sei miliardi di reais, che in parte rimangono impigliati nelle maglie della corruzione locale, uno dei motivi delle proteste odierne.
Destano perplessità anche i numeri della riforma agraria, fiore all’occhiello esibito dall’amministrazione Lula, per ottenere la conferma del secondo mandato. Milioni di ettari di terreni, secondo la propaganda, distribuiti ai contadini; aumentano le concessioni creditizie ai fini di agevolare i piccoli imprenditori, ma il piano dei finanziamenti, negando le promesse di tenere sotto controllo il liberismo degli enti privati da parte dello Stato, è stato trasferito ad assicurazioni e finanziarie, che, infiltrandosi nei vertici dei Municipi, applicano interessi onerosi, costringendo molti dei piccoli coltivatori a riconsegnare il possesso delle terre acquisite ai latifondisti, dotati di risorse e macchinari agricoli, al fine di conservare almeno un posto di lavoro.
Comunque sia, i massicci investimenti che, molti colossi europei e nord americani, tra i quali la nuova Fiat in joint venture con la General Motors, compiono in Brasile, mantengono il prestigio internazionale dell’attuale governo; la Fiat Chrysler, inaugurerà nel 2014 la nuova linea di produzione nello stato di Pernambuco, presso la cittadina di Goiana, (74.000 abitanti) grazie al suo governatore, Eduardo Campos, il quale ha vinto l’agguerrita concorrenza della Capitale, Recife, che con gli alti costi di affitto dei terreni, e soprattutto con l’incubo del traffico, (è, forse con Sao Paulo, la città più intasata del Brasile) fece rizzare dallo spavento i peli del maglioncino di Marchionne.
Campos cede a costo zero i terreni alla multinazionale italo-statunitense, a fronte di un impiego di 5.000 operai. Peccato che, il salario minimo sia ancora intorno ai 250 euro mensili, rispetto ai prezzi senza freni degli ultimi anni, soprattutto riguardo scarpe e capi di abbigliamento. Per non dimenticare scuole e ospedali, il cui servizio pubblico è deteriorato in modo impressionante, favorendo invece un proliferare di cliniche e istituti privati, il cui costo può essere sostenuto solo da una minoranza.
A fronte di piani sanitari e scolastici, che, patrocinati da enti assicurativi privati, prevedono esborsi minimi di 500 euro mensili, a copertura di una famiglia media di 4-5 persone. Gli assegni familiari sono per ora inchiodati a circa 30 euro mensili per figlio, anche se è prevedibile un aumento per evitare nuove proteste; quello che i dimostranti hanno ottenuto, nei municipi di Recife, Joao Pessoa in Paraiba, e Porto Alegre, capitale di Rio Grande Do Sul, è l’annullamento dei ritocchi delle tariffe trasporto pubblico.
Lo Stato di Sao Paulo, sotto la guida del governatore Geraldo Alckmin, uno dei leader municipali più conservatori del Brasile, ha autorizzato la polizia militare a sparare proiettili di gomma, e usare spray urticanti al peperoncino, sul modello turco, contravvenendo alle direttive iniziali del governo federale, che aveva richiesto un basso profilo ai militari; buoni propositi annullati dall’invasione dei manifestanti nel Palazzo dei Congressi a Brasilia, pretesto ideale per scatenare la violenza delle autorità. A Salvador, pochi giorni fa, il viceministro per la Sicurezza dello Stato di Bahia, in un raptus di follia, ha sparato sui dimostranti che commemoravano Fabio Santos, leader del Mst (Movimento Sem Terra) assassinato il 2 Aprile.

Il peccato della carne
O Globo considera incostituzionale il plebiscito popolare vagheggiato dal governo, paragonandolo nelle vignette a un manzo gettato in pasto ai rivoltosi/piranha, mentre Folha de S.Paulo, diretto di fatto dal leader dell’opposizione, il socialdemocratico Aécio Neves, rincara la dose, sparando a zero sulla Presidente Rousseff, dimenticando quello che proprio i conservatori avevano dichiarato qualche tempo fa, cioè alla fine il buon Lula non era stato così rovinoso per lo status quo, considerando che, pur proveniente dall’estrema sinistra, non aveva fatto poi grossi danni.

In realtà la tendenza che già si era manifestata nel secondo mandato del Presidente, e concretizzata pesantemente in questi ultimi tre anni, è quello di una dicotomia netta nella popolazione brasiliana, una sorta di nuova apartheid, di natura economica, con un 25/30% dei cittadini, che, grazie ai nuovi profitti, può accedere a un’istruzione e un servizio sanitario di primo livello, con un potere d’acquisto decuplicato, motore del successo di centri commerciali che espongono merci di lusso, ristoranti che si permettono di buttare mezza tonnellata di avanzi al giorno, come la catena delle churrascarias dei Sal e Brasa del Nord Est, visto il giro d’affari continuo che hanno, anche in virtù dei prezzi a buon mercato della carne bovina, di cui il Brasile è il produttore principale del Sudamerica, insieme all’Argentina.
Non così a buon mercato da consentire l’accesso a quelli del salario minimo, o agli emarginati, ai quali non va neanche l’elemosina degli avanzi; mezza tonnellata giornaliera di carne, cifra confermata dal personale del Sal e Brasa di Recife, distrutta, per via di una regola igienica assurda, con la scusa di salvaguardare la salute della gente, la stessa che nelle favelas deve ravanare nel lixo (monnezza) per sopravvivere. Spazzatura sì, carne no.
Questi connotati classisti, nello Stato di Bahia, soprattutto nella capitale Salvador, assumono tinte razziste estreme, laddove in una città popolata per l’85% da neri e meticci, la sera dentro bar, discoteche o ristoranti si vedono solo bianchi. E se per caso un nero azzarda a mostrarsi, se non è addetto ai lavori, viene “gentilmente” invitato dalla polizia ad allontanarsi.
Dopo la visita di Papa Bergoglio a Rio, le proteste sono diminuite. E’ un fuoco che cova sotto la cenere, e il suo riattizzarsi o meno dipende soprattutto da due fattori:
1) Tra un anno ci saranno le nuove elezioni e soprattutto la Coppa del Mondo di calcio; sia la destra, così come il PT al governo, sono alla ricerca di voti, e la demagogia ora è al lavoro su entrambi i fronti, senza dimenticare che il Presidente della FIFA Blatter farà il possibile per evitare gli stessi casini o peggio.
2) A giugno non si è trattato di pacificare una favela, i rivoltosi erano dappertutto, con la polizia militare sorpresa e sconcertata da una folla del genere; nelle strade si sono riversati non solo poveracci, ma anche cittadini dei ceti medi. E sparare su di loro piombo vero, sarebbe stato controproducente, sotto i riflettori dei media.
Tutto dipenderà dal “progreso”, che la bandiera espone al centro del suo logo. Se i suoi benefici raggiungeranno anche le classi dei “dannati”, il Brasile potrà farcela, e allontanare così lo spettro di un conflitto civile.

(Da Notizie Radicali del 19/09/2013)


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