A Roma, seminario di Redattore Sociale per riflettere sulle discriminazioni di genere e la poca visibilità delle tematiche Lgbtqi nei media.
Di Barbara Romagnoli
Un centinaio di persone hanno preso parte il 16 ottobre a Roma al seminario di Redattore Sociale dal titolo “L’orgoglio e i pregiudizi. Per un informazione rispettosa delle persone Glbt”, un incontro di formazione sui temi del genere e dell’orientamento sessuale.
L’incontro, realizzato nell’ambito Progetto “LGBT Media and Communication” e finanziato dal Consiglio d’Europa, è stato patrocinato fra l’altro dall’Ordine dei Giornalisti, la Federazione Nazionale Stampa Italiana e dall’associazione Stampa Romana.
“Ogni volta che i riflettori della cronaca si accendono su ‘ambienti gay’ torbidi e devianti, o l’omosessualità di qualcuno è usata come un’arma di dileggio, ogni volta che transessualità diviene sinonimo di prostituzione e l’orgoglio è trasformato in ‘esibizionismo’ – scrivono i promotori – i media italiani allontanano di un passo la conoscenza delle persone LGBT, delle loro lotte, delle loro vite, dei loro diritti. Talvolta è per imbarazzo, talaltra per incompetenza. In molti casi è per pregiudizio, più o meno consapevole”.
Ad aprire i lavori, il saluto istituzionale di Paola Concia (Pd) che ricorda come l’Europa non vigili solo sui nostri conti ma anche sulle nostre pari opportunità. “La responsabilità dell’informazione è enorme – afferma Concia – e i social network e le testate online sono il futuro della comunicazione, è necessario che raccontino la vita delle persone e non puntino i riflettori solo sulla violenza”.
Soprattutto – e l’invito è rivolto alle/ai giovani in sala – la fretta è cattiva maestra, sostiene Alessandra Cattoi, assessora alla Scuola, infanzia, giovani e pari opportunità del Comune di Roma: bisogna sempre rileggere quello che si scrive e non usare i luoghi comuni. Cattoi, giornalista di formazione, vorrebbe che si facesse attenzione alla ‘a’ di assessora. Ma c’è ancora molta resistenza ad usare il linguaggio sessuato, nominare tutto al maschile è la prima forma di discriminazione. La cura delle parole è forse lo scoglio più faticoso da superare: ad esempio, perché nel titolo del seminario non viene utilizzato l’acronimo al completo, Lgbtqi? Se è vero -come dirà a metà mattinata Ivan Controneo, scrittore e regista – che se qualcosa non viene visto o rappresentato non esiste, forse una iniziativa del genere avrebbe dovuto ragionare anche attorno ai termini ‘queer’ e ‘intersessuale’.
La sensazione è che si voglia dare maggior spazio al politicamente corretto, ad una sorta di lista di parole sì/parole no, con il rischio non solo di riprodurre stereotipi sessisti nel mondo omosessuale, ma anche di ridurre a categorie chiuse la complessità del reale. Un intervento dalla platea richiama all’esistenza della bisessualità e alla necessità di scardinare quell’agenda che i media mainstream dettano anche sul lessico.
Così forse si eviterebbe di nominare la vice ministra Guerra al maschile, o magari non avremmo proposte, come quella di Claudio Rossi Marcelli (rivista Internazionale), che suggerisce di usare nozze gay per sottointendere anche quelle lesbiche. No, non si può, come giustamente ricorda Delia Vaccarello (Unità) nel suo puntuale e approfondito intervento: è necessario rivendicare la parola lesbica e non pronunciarla sottovoce, così come è indispensabile fare chiarezza sulla transessualità, continuamente scambiata per prostituzione. Vaccarello racconta anche storie di transito, di femmine diventate maschi e viceversa, a partire dal suo ultimo libro [Evviva la neve, Mondadori] e richiama giornalisti e giornaliste a conoscere bene quello di cui si sta parlando, a trovare un lessico che trasformi quello che è ignoto in qualcosa che non fa paura.
O per dirla con le parole di Elena Tebano (Corriere della Sera) è importante imparare a guardare le cose diversamente e riportare questo sguardo diverso in redazione. Nel documentario Diversamente Etero che ha curato insieme a Milena Cannavacciuolo si indaga sulla visibilità lesbica in televisione, attraverso i filmati censurati dalla tv e le interviste a fan, giornalisti, esperti di comunicazione e attivisti del mondo lgbt. E si scopre un altro mondo, sconosciuto ai più.
Del resto, come spiega Valeria Ambrogi del Centro d’Ascolto dell’Informazione Radiotelevisiva, i dati parlano chiaro: in un anno di monitoraggio dei notiziari di Rai, Mediaset e La7, sono state date solo l’0,2% di notizie riguardanti tematiche Glbtqi su oltre 10mila notizie complessive. Difficile che il pubblico televisivo, certamente maggiore di quello della carta stampata, riesca a farsi una idea diversa su tutto ciò che riguarda sesso, genere, orientamento sessuale. Al pluralismo politico, sostiene Giovanni Anversa (Rai), dovremmo sostituire il pluralismo sociale. Raccontare davvero tutto quello che la società contiene, senza ipocrisie e formali tolleranze.