Stamattina, la giornata di Maria è iniziata con un pensiero dedicato a Giuliano Gemma: «Riposa in pace…» scrive sulla sua bacheca Facebook. Poi, una sfilza di puntini sospensivi seguiti da un cuoricino. Lo stesso con cui chiude il suo saluto quotidiano a Marcello, il suo Marcello: «BUONGIORNO AMORE MIO MI MANCHI». Tutto rigorosamente in stampatello maiuscolo. Come sempre. Come ogni giorno.
Maria Ciuffi urla così la sua rabbia. Quelle lettere maiuscole sono il suo modo per gridare più forte, e la bacheca del suo profilo rappresenta l’ennesimo campo di battaglia. Una battaglia tenace che ha un solo obiettivo: non arrendersi e conoscere la verità sulla morte di suo figlio, avvenuta dieci anni fa. Precisamente l’11 luglio 2003, quando al carcere delle Sughere di Livorno il detenuto Marcello Lonzi, di 29 anni, muore d’infarto – recita il referto dell’autopsia -. Ma Marcello viene rinvenuto in una pozza di sangue, il volto gonfio, il corpo martoriato. La testimonianza di questa madre che chiede giustizia è fatta di tante domande senza risposta. Ma che una risposta la esigono. L’aspettano.
La petizione online (http://chn.ge/1fmYiCV), promossa da Maria perché la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo riesamini il caso Lonzi, oggi è a quota 20.395 firme. Il traguardo dei 25.000 è vicino. Poi, la speranza è che Strasburgo disponga la celebrazione di un processo. Com’è stato celebrato per il caso Cucchi.
Perché della morte poco chiara di suo figlio, avvenuta ben dieci anni fa, si è sempre parlato poco?
«Tutti mi fanno questa domanda. Non lo so: ma il mio caso è uscito poco dalla Toscana. All’Ansa di Firenze ho sempre fornito, di volta in volta, tutti gli aggiornamenti e i documenti. Ma l’unico che mi ha rivolto l’attenzione è stato Maurizio Costanzo, nel 2005. Mi chiamò per partecipare alla sua trasmissione e, nonostante l’ora – andava in onda alle 10,30 del mattino – mostrò foto, abbastanza crude, del corpo senza vita di mio figlio, infischiandosene della fascia oraria di garanzia. In diretta telefonica parlarono i medici del carcere, che io ho denunciato ora».
L’obiettivo della petizione online è in dirittura d’arrivo. E poi?
«Aspetteremo una risposta da Strasburgo, dopo tanti rifiuti e due archiviazioni. L’ultima è stata quella del marzo scorso. Ero stata convocata dal Tribunale per il giorno 25, ma il 19 marzo vengo a sapere che il procuratore capo aveva archiviato di nuovo tutta la vicenda. Mi sono data una risposta: proprio l’indomani avrei dovuto depositare la foto dell’autopsia compiuta sul corpo riesumato di mio figlio. Si nota chiaramente che nella testa ci sono tracce di vernice blu. Questa fotografia non è stata ancora repertata e con quella foto io sarei arrivata senz’altro al processo, perché mio figlio non è nato con la vernice blu né con i buchi in testa, uno dei quali profondo fino all’osso».
Le fotografie, disponibili in rete, parlano da sole. Quali lesioni presentava il corpo di Marcello?
«Anche quest’ultima archiviazione parla di morte per “grande infarto”. Ma un infarto provoca anche due buchi in testa, due denti rotti, la mandibola rotta, un polso rotto, un’escoriazione a ‘V’ e otto costole fratturate? Tutto nella parte sinistra del corpo. I risultati della riesumazione, compiuta nel 2006, parlano chiaro. Del resto, anche il mio medico legale afferma che Marcello sia morto di infarto: ma prima cos’è accaduto? Cosa ha provocato quel ‘grosso infarto’? Ecco perché sto lottando: sì, le foto parlano da sole. Non le ho fatte né ritoccate io. Le 12 fotografie a colori del copro di Marcello le ho avute dai carabinieri di Livorno. E il maresciallo, quando me le consegnò, mi disse di non guardarle da sola. Poi, ho capito perché: un conto era vedere Marcello in faccia, il giorno del funerale, un conto è stato vederlo con “la pelle fuori”».
Cosa ricorda di quel luglio 2003?
«Marcello è morto l’11 luglio, ma io sono stata avvertita il giorno 12 alle 13,20 – mi ricordo ancora l’ora – quando la notizia era già su tutti i giornali di Livorno. Io, a Pisa, invece, non ne sapevo nulla. Rincasai, quando suonarono alla porta: trovai la ragazza di mio figlio che piangeva disperata: “Marcellino è morto” mi fece. Non volevo crederle. Mi sono precipitata in carcere, a Livorno. Mi hanno fatto aspettare più di un’ora e mezzo, sotto il sole di luglio, fuori dal penitenziario. Venivano al cancello, mi guardavano, io chiedevo del direttore, del comandante; mi dicevano di aspettare, aspettare, e andavano via. Alla fine, fui ricevuta da due ispettori: avevano il giornale sulla scrivania, con le foto di mio figlio in prima pagina, e istintivamente uno dei due lo rivoltò perché non le vedessi. Gli dissi: “È inutile che le copre: le ho già viste”. Mi risposero solamente: “Che cosa vuole da noi?”. E quando dissi che volevo vedere mio figlio, risposero che non era già più lì. Che già gli stavano facendo l’autopsia».
Un’autopsia lampo?
«Sì: non ho avuto neanche il tempo di nominare un mio perito di parte. Alle 15,30 ero a Livorno e l’autopsia era già iniziata. Marcello è morto di venerdì e alcuni medici legali di Pisa mi hanno spiegato che, solitamente, occorre qualche giorno perché l’esame medico legale venga effettuato. E con il sabato e la domenica di mezzo, in circostanze normali, l’autopsia sarebbe stata fatta di lunedì. Perché tutta quella fretta? Non volevano che io potessi vedere il corpo di mio figlio e notare qualcosa? Ma non è servito lo stesso: potevano farla franca se non gli avessero toccato il viso. Quando l’ho visto nella bara, il giorno del funerale, era vestito. Il corpo era coperto. Ma il viso no, non era quello di mio figlio: ho notato i segni, il viso spaccato. Ho pensato immediatamente solo una cosa: “È stato picchiato”».
Le indagini e la ricostruzione di quell’11 luglio cosa dicono?
«Il compagno di cella aveva dichiarato di aver udito un tonfo, di essersi svegliato di soprassalto e di aver pensato che Marcello fosse caduto dal letto. Ma che vuole prendere tutti per il culo? Che uno cade da un letto e si spacca tutto, in quella maniera? Anche gli atti mostrano tutta una serie di incongruenze: le dichiarazioni, sia dei detenuti che delle guardie, sono discordanti e non combaciano come orari. Ma quello che ho potuto dedurre da queste dichiarazioni è che la mattina mio figlio aveva avuto uno scontro verbale con un appuntato, che, però, come dichiarano anche gli altri detenuti, era finito lì. Anzi, alcuni detenuti dichiarano al pm che Marcello era buono con tutti e che quella discussione non aveva avuto strascichi. Negli atti c’è anche scritto che quell’appuntato era soprannominato Tavernello, come il vino, perché – mi spiegarono – beveva. Anche in servizio».
E poi? Cosa è accaduto?
«Ho ascoltato alcune dichiarazioni rilasciate dai testimoni al pm: dopo quell’alterco, altri detenuti dichiarano di aver visto passare mio figlio, chiamato da una guardia. Chiamato perché? E per essere portato dove? Poi, nessuno lo vede più. Alle 15,30 – dichiarano –tutte le celle vengono chiuse. Tutti blindati dentro. “Si sente correre su e giù e voci sconosciute” si legge negli atti. Quello “sconosciute” sta per voci di guardie che i detenuti non udivano tutti i giorni. Erano presumibilmente i carabinieri. E poi, concludono: “Solo all’indomani si viene a conoscenza che Lonzi è morto”».
A che ora sarebbe deceduto suo figlio?
«Avevano sempre dichiarato alle 20,14. Ma le verifiche più recenti hanno dimostrato che non aveva cenato e che la morte è da collocare nelle prime ore del pomeriggio. Il che combacerebbe. E poi, se Marcello è morto di infarto, perché una guardia sarebbe dovuta correre in infermeria, quel pomeriggio, e urlare all’infermiera: “Corri, corri, Lonzi mi è morto tra le mani”? Lo ha dichiarato un detenuto che si trovava in infermeria in quel momento, aggiungendo che la guardia aveva la divisa in disordine e che, appena lo vide, gli intimò in malo modo di andarsene via.
E poi, se Marcello è morto di infarto, perché il magistrato e i medici legali hanno effettuato il confronto tra le dimensioni delle chiavi delle celle in dotazione alle guardie ed i segni e le ferite – assolutamente lineari – sul volto di mio figlio, dal sopracciglio fino al labbro? Due di queste chiavi non combaciavano, ma la terza aveva molti elementi di compatibilità con le lesioni, come dichiarato anche agli atti».
Lei ha lottato tanto e lotta ancora per conoscere la verità ed avere giustizia. Cosa ha fatto finora?
«Ho presentato tre denunce: la prima, il 10 dicembre 2004. In seguito alla prima archiviazione, ho denunciato il pm. Mi archiviarono la denuncia al pm, ma mi fecero riaprire il caso, nel 2005: era quello che volevo. Così, mi fu accordata anche la riesumazione della salma di mio figlio, compiuta nel 2006. Sul corpo, dopo tre anni dalla morte, erano ancora evidenti alcune tracce ematiche sulla schiena. E le costole rotte non erano due, come aveva scritto il medico legale che compì la prima autopsia a Livorno, bensì otto. E la riesumazione mostrò anche la frattura al polso e altri elementi omessi dalla prima autopsia. Insomma, io voglio solo la verità: ho compiuto tutto l’iter possibile e sono ricorsa anche alla Cassazione, nel 2011. Dopo solo cinque giorni, hanno risposto alla mia richiesta di riaprire il caso con una sola parola: “irricevibile” e con una nota spese di 500 euro. Hanno ucciso mio figlio e devo pagare 500 euro di spese per non ricevere risposta? Piuttosto, sconto cinque giorni agli arresti domiciliari. E anche se volessi, quei soldi non li ho».
Qualche tempo fa lanciò la provocazione di vendere un rene per pagare le spese legali.
«Sì, perché non ho più nulla. Ho venduto anche quel poco di oro che avevo per pagare avvocati e medici legali. Ma io non mi sono mai fermata e non mi fermo ora. Voglio un processo, mi sto battendo per questo: due volte l’ho chiesto e due volte il gip ha archiviato la mia domanda. Una mamma devo sapere perché suo figlio è morto».
Ma chi era Marcello?
«Era solare, era sempre allegro. Aveva sbagliato, era stato arrestato per tentato furto ed era giusto che scontasse la sua pena. Ma morire così no. E, poi, sapeva farsi voler bene. Quando è morto arrivarono tre corone funebri, dalle tre sezioni del carcere da cui era passato. Evidentemente aveva lasciato un buon ricordo di sé. E poco tempo fa, mi ha scritto un signore. Mi ha detto che Marcello aveva lavorato nella sua ditta e che si ricordava del suo sorriso. Rideva sempre, era sempre sorridente. Marcello era fatto così».