Malaluna, ritorno all’inferno

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Rosy Canale, ridotta in fin di vita perché impediva lo spaccio nel suo locale, ha fondato il Movimento delle donne di San Luca. E ora lo racconta a teatro.

Mariangela Latella

«Ci sono giorni che mi sento combattiva, forte, e penso che ce la farò a portare avanti fino in fondo questo cammino che ho abbracciato. Altri invece in cui mi sento fragile, piccola, davanti a questa cosa più grande di me che ho davanti. Mi assale la paura che da un momento all’altro possa arrivare ai miei genitori e a mia figlia una “mala” notizia. E mi prende lo sconforto».

A parlare è Rosy Canale, una giovane imprenditrice di Reggio Calabria che per essersi opposta, 10 anni fa, allo spaccio di droga nel suo locale, il Malaluna, è stata ridotta in fin di vita da due sgherri della ‘ndrangheta reggina. Dopo una lunga convalescenza durata otto mesi e dopo avere chiuso il suo locale, Rosy, ha deciso di reagire, di non subire i soprusi o, come qualche conoscente le aveva suggerito, di sparire e non farsi più vedere. E’ tornata in Calabria e a San Luca, paesino dell’Aspromonte considerato il cuore nevralgico della ‘ndrangheta, ha fondato il movimento delle donne di San luca che riunisce tutte le donne del paese anche appartenenti a cosche opposte.

Ora vive a New York con i genitori e la figlia. «L’unico modo – ci spiega – per sottrarmi alle continue vessazioni, minacce e prepotenze a cui, da 10 anni, ero sottoposta quotidianamente. Ma mi manca molto l’Italia, mi manca la mia terra e spero un giorno di potere tornare a viverci».

La sua storia è diventata prima un libro (La mia ‘ndrangheta) da lei scritto e poi uno spettacolo di teatro, dal titolo Malaluna – come il nome del suo locale da cui tutto è cominciato – che ha debuttato al teatro Franco Parenti di Milano (registrando sin dalla prima replica il sold out) e che farà tappa nelle principali città d’Italia in un tour di 20 date già destinate ad aumentare.
I testi li ha scritti lei per la regia di Guglielmo Ferro e per la produzione di Bananas, la stessa società che produce Zelig, per intenderci. Un lungo monologo sentito, sofferto, che trasmette una tensione emotiva costante, con cui, la giovane e coraggiosa imprenditrice, accetta di aprire il suo cuore e condividere i suoi ricordi con la gente.

«Me la ricordo ancora quella notte – ci racconta -. Come fosse ieri. E il suo ricordo ancora mi fa male, molto male. Per anni non sono riuscita a parlarne. Neanche a pensarla perché anche il solo pensiero del pestaggio che ho subito mi toglieva il fiato. Volevo cancellarlo dalla mia testa».

Nella notte tra il 24 ed il 25 aprile 2004. Rosy ha appena chiuso il locale. Come ogni notte, passa dal distributore di sigarette vicino al bellissimo lungomare di Reggio Calabria. Se ne fuma sempre una prima di andare a dormire. Per rilassarsi.

Si accorge di essere seguita da una moto ma non si preoccupa più di tanto.
«Sapevo di avere pestato i piedi a qualcuno impedendo lo spaccio nel mio locale. Ma non volevo che si pensasse che mia figlia fosse la figlia di una che vende droga. Così ogni volta che li scoprivo a vendere coca, gliela buttavo e li allontanavo senza tanti giri di parole. Sinceramente qualche ritorsione, prima o poi, me l’aspettavo, ma pensavo che ne so, che mi avrebbero bruciato la macchina o il locale. Non avrei mai immaginato che sarebbero potuti arrivare a tanto anche perché – nel codice d’onore delle ‘ndrine – le donne sono intoccabili».

Nell’agguato di quella notte, Rosy è stata tramortita prima con un colpo violentissimo col calcio di una pistola sulla bocca. Una botta che le ha fatto saltare quasi tutti i denti. Poi è stata lasciata in fin di vita sull’asfalto, a due passi dalla questura, dopo essere stata presa a calci per un tempo infinito di cui, oggi, ricorda poco e niente.

«Quello che è successo durante quel violento pestaggio – ricorda con la voce ancora rotta dall’amozione – l’ho ricostruito con l’aiuto dei medici ma anche di qualche ricordo che mi riaffiora come flash di quella maledetta notte. Mi ricordo, ad esempio, che prima di andarsene quei balordi mi hanno sputato in bocca. Ecco, si, questo me lo ricordo».

Dopo quella notte, per 8 mesi Rosy ha dovuto lottare per rimettersi in piedi. Persino per ricominciare a parlare. Aveva quasi tutte le ossa rotte dai calci feroci di quei vigliacchi. La clavicola, le spalle, le braccia, il femore.
Persino le dita delle mani.

«Mia figlia che all’epoca aveva 9 anni, non mi ha visto per così tanto tempo che alla fine ha smesso di credere a quello che le dicevano i miei genitori, ossia che ero partita per un viaggio, e si era convinta che fossi morta. Mio padre dall’ospedale le mandava messaggi con il mio telefonino, spacciandosi per me, per tranquillizzarla».

Una volta rimessa in piedi, anzi sui suoi tacchi (rigorosamente 13, per mascherare il fatto di essere una donna minuta), Rosy scopre di avere intorno a sé il deserto. L’essersi messa di traverso alla mafia le aveva fatto terra bruciata intorno. E’ questa la dura legge di una città, di una cultura, malata di mafia ed omertà.

«E’ stata l’offesa peggiore. Mi hanno voltato le spalle tutti. Amici, parenti, tutti. Solo mio padre, mia madre e mia figlia mi sono rimasti accanto. A quel punto, capisci, non avevo più nulla da perdere. Non avevo neanche più un lavoro perché, inutile dirlo, il locale l’ho dovuto chiudere e Dio solo sa come ho fatto a pagare i debiti».

E’ in quel limbo dell’anima fatto di disperazione e consapevolezza di non avere più nulla da perdere che è fiorita in Rosy la voglia di riscatto, la forza ed il coraggio che poi l’hanno portata, nel giro di pochi mesi, a tornare in Calabria e a fondare a San Luca, il feudo mafioso per eccellenza, situato alle pendici dell’Aspromonte, il movimento delle donne di San Luca.
«Mi sono detta: Se quello è l’inferno è la che voglio tornare e se mi devono fermare dovranno ammazzarmi!».

Per San luca, che aveva da poco iniziato a piangere i morti della strage di Duisburg e l’omicidio di Maria Strangio, quella piccoletta dai capelli lunghi e rossi, dal sorriso smagliante e dalla battuta sempre pronta, che nella loro scuola media insegnava ai ragazzini a dipingere, è stata una ventata di aria fresca. In poco tempo l’associazione arriva a raccogliere tutte le donne del paese con l’obiettivo di ridare vita alle attività artigianali locali come l’intaglio della pipa, il ricamo, le produzioni enogastronomiche e così via dicendo.

«Abbiamo creato posti di lavoro ma anche rinsaldato una comunità che ormai era stanca delle guerre di mafia e di quella mentalità fatta di prepotenza e soprusi. Dentro l’associazione tutte le donne del paese si incontravano e dialogavano, anche se appartenevano a cosche opposte e magari per strada neanche si guardavano in faccia. A queste donne ho avuto la forza di aprire il mio cuore per la prima volta da quella sera maledetta. Ho raccontato loro quello che mi era successo e loro si sono commosse di fronte a tanta ferocia.
La mia storia ha fatto il giro del paese e anche gli uomini che l’ascoltavano si scandalizzavano. Tutti mi hanno accolto in un grande abbraccio. Per me San Luca rappresenta casa, un posto dove mi sento accettata e rispettata come mai era successo in vita mia».

Ma i soprusi degli sgherri che l’avevano pestata non finiscono. Ogni giorno c’è una sorpresa nuova: la testa mozzata di un coniglio speditale per posta il giorno del suo compleanno, le poste davanti alla scuola della figlia ormai adolescente.

«Quella volta che sono entrati a casa dei miei ed hanno preso mia madre per la gola, ho capito che era arrivato il momento di andare via, di partire e così io, i miei genitori e mia figlia ci siamo trasferiti in America. Ormai sono due anni e mezzo che manco dall’Italia».

Un esilio forzato che si è interrotto in questi giorni perché Rosy ha deciso di tornare in Italia per portare il tour Malaluna in giro per i teatri del belpaese.

«Non avendo mai sporto denuncia, per la mia incolumità e quella dei miei, non ho potuto accedere mai ad un programma di protezione. Per cui non ho scorta, non ho l’appoggio di nessuno e di niente. Sono solo io contro qualcosa che certe volte mi sembra troppo più grande di me. Non mi sento un’eroina. Sono solo una mamma che ha fatto quello che qualsiasi mamma avrebbe fatto al mio posto senza immaginare poi tutto quello che è successo dopo. Per il momento l’unico scudo mi viene dall’appoggio della gente che conosce la mia storia, il pubblico che si raccoglie intorno a me. Questo mi dà molto calore. Le istituzioni? . Lasciamo perdere.
Ti dico solo che abbiamo avvisato tutte le prefetture delle date del tour spiegando la delicatezza della situazione ma fino ad ora non hanno mandato mai neanche una volante di ronda».

da giuliagiornaliste.it


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