Nei dintorni di una delle più gettonate località balneari del Brasile, sopravvivono comunità di emarginati, cittadini scomodi per un Municipio che ha voltato lo sguardo dall’altra parte. Litorale norte, sul A Pratagy la veduta che appare al risveglio, cambia di volta in volta. Un piccolo fiume presta il nome a questo villaggio, situato 20km dal centro di Maceio’; il mare lo infiltra, tra banchi e dune di sabbia, che l’erosione delle onde modella e ridisegna senza soluzione di continuità. Ieri le piccole lagune, che l’acqua salmastra forma all’interno degli stessi, erano così profonde da dover nuotare per passare da una parte all’altra. Oggi, dopo la mareggiata della notte giunta fino ai bungalow, la bassa marea mattutina livella i canali tra i banchi, una tregua insidiosa. Difatti, camminando dove prima si nuotava, è facile sprofondare nella sabbia morbida, e se questo accade, il piede viene risucchiato dal fondo, alquanto dura tirarlo poi fuori. Aldilà di ciò, non esistono altri rischi, non ci sono serpenti velenosi, solo lucertoloni che volano sul terreno, e gli squali, che a Recife non di rado attaccano I bagnanti, ignari dei divieti, qui sono confinati al largo, oltre la barriera corallina che non esiste nella capitale di Pernambuco.
I colori violenti, africani, blu cobalto il cielo dopo la pioggia, la sabbia rosso ruggine, il verde delle mangrovie. Eppure questo quadretto bucolico cessa bruscamente come si arriva a Maceio’, capitale dello stato di Alagoas. I centri commerciali che si mischiano ai capannoni industriali, verso la fine del litorale norte (nord), spezzano già dalla periferia la quiete un po’ fangosa delle campagne circostanti. Dopo lo shopi Maceio’, passato il viadotto, si gira a sinistra per imboccare il litorale sul (sud), il bancomat della nuova imprenditoria turistica, che ha affiancato quella tradizionale. Qui di brasilero rimane ben poco; una fila ininterrotta di bar e ristoranti con i tavolini fuori, che propongono bevande e piatti internazionali, con l’eccezione di caipirinha e tapioca, tanto per mantenere un minimo di orgoglio gastronomico locale. Per capire da quale parte del mondo siamo, c’è ancora parecchia strada, fino a Pajuçara (pron. Pagissara). Qui ritroviamo le barracas, con gli squisiti pirao e acarajé, che avevamo lasciato a Salvador e l’artigianato di Alagoas: le lojas (negozi) si confondono con la varietà delle offerte; decine di artisti, stipati in spazi angusti, sono chini su la finitura delle proprie opere; rendas, pizzi e merletti con motivi floreali, caminhos de mesa em filé, i centrotavola ricamati con fili di lino e fibre di cocco, vasellame di barro (argilla) e ceramica, sandali di couro (cuoio), borse di palha (paglia) intrecciata, oggetti di madeira (legno)…tanto per dare un idea. I prezzi variano, i centrotavola sono i più baratos, 20 Reais, intorno agli 8 euro. L’attrazione maggiore del litorale Sul, a 23 km da Maceio’, è sicuramente la Praia Do Frances, la spiaggia top della prima capitale dello Stato di Alagoas nel 1522, Marechal Deodoro. Non da meno quelle di Gunga e Barra De Sao Miguel, così come la Lagoa Do Pau, un piccolo lago. Trovare un po’ di Brasile, non è impresa facile anche di notte; il dopocena nei bar, costellato dallo show di musicisti amatoriali che propongono soprattutto classici del rock; i giovanotti delle classi alte si riversano dentro locali di un certo livello, come Leoteo, dove suonano gruppi di forro’ e samba pagode. Ambienti molto formali, dove l’abbigliamento del turista classico in canotta e bermuda non è assolutamente tollerato…siete avvisati.
Centro senza centralità
Gli introiti del turismo hanno raddoppiato il PIL dello Stato di Alagoas; il municipio di Maceio’ ha investito i proventi fiscali quasi esclusivamente sulla porzione del litorale Sul prima di Pajuçara, con la costruzione di una pista ciclabile sul lungomare, che diventa isola pedonale la domenica. Nulla o quasi è stato fatto per la valorizzazione del centro storico e il miglioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti, al contrario della prefettura di Recife, la quale solo quest’anno, a vantaggio del lazer (tempo libero) dei suoi amministrati, ha già speso svariati milioni di Reais, per la Festa Da Lavadeira del 1° maggio.
Il Viale della Vergogna
La città di Maceio’ ha la sua risorsa principale nel salgemma, che rifornisce tutte le industrie chimiche della zona. Cemento e alcool sono le altre produzioni, insieme al gas naturale estratto. Per arrivare al centro, dopo il solito shopi, si gira stavolta a destra, salendo su una stradina che porta prima al “belvedere”, un piazzale sopra le fabbriche della zona industriale. Decorato a livello perimetrale con l’onnipresente lixo (monnezza). Scendendo a rotta di collo lungo ripidi tornanti, si sbuca sulla via principale che porta alla Praça dos Martirios; a destra l’omonima chiesa e a sinistra il Palàcio Floriano Peixoto, l’antica sede del governo, oggi museo; le spiagge sono piene di gente, ma qui non si vede neanche un turista. Un senso di desolazione, al cospetto dello storico edificio ancora imbandierato, che si erge a simbolo di una realtà urbana che ha cessato di esistere, traslocata a livello amministrativo e sociale. Ridotta a dormitorio di una manodopera pendolare tra il centro e le fabbriche a valle; abbandonata dal personale alberghiero, che si è mosso in direzione nord e sud. Di notte, una tra le città più violente del Sudamerica, 1500 omicidi l’anno passato. Usciti dal centro storico, si arriva al viale principale, che si ricongiunge di nuovo sulla costa sud dopo Pajuçara. L’Avenida Rui Palmeira è densa di sorprese, una vetrina di miseria a scatole cinesi. La strada costeggia una serie di casupole in mattonato grezzo, con tetti a tegola rattoppati qua e là da scarti di metallo. Le casette sono appoggiate su basi di cemento, immerse nell’acqua putrefatta del fiume che scorre sotto. L’accesso alle stesse, tramite passerelle di assi fradicie, che minacciano di cedere da un momento all’altro; niente acqua corrente e fognature, l’approvvigionamento idrico fornito da un cassone d’acqua istallato sopra i tetti. Ha appena piovuto, e una fanghiglia nerastra guarnisce i marciapiedi, un tanfo di marcio, serra le narici. L’ambiente ideale per le larve della zanzara che porta la dengue, un’infezione tipica sudamericana e caraibica, febbre intorno ai 40°, dolori articolari, vomito, esantemi cutanei, fino alla complicazione polmonare emorragica, che può causare la morte in poche ore. Nel 2013 le epidemie di dengue in Brasile sono aumentate del 190%, passando dai 75.000 ai 220.000 casi dal 2012. Lo Stato di Alagoas, dopo Mato Grosso e Minas Gerais, e’ il terzo nella classifica del Paese, fino ad ora le statistiche del 2013 arrivano a 35 decessi. L’epidemia è dichiarata quando si superano i 300 casi per 100.000 abitanti. Maceio’ con i suoi 3000 casi circa, su una popolazione di 922.000 anime, rientra in questa categoria. Sebbene le industrie e lo sviluppo turistico abbiano consentito la formazione di una media borghesia benestante oltre a un largo impiego di manodopera, in una popolazione così vasta, tanti sono quelli tagliati fuori comunque. Si gira su un piazzale, proseguendo lungo un rettilineo costellato di teloni di plastica neri, sostenuti da pali di legno malfermi. Ci metto un bel po’ ad accorgermi che non sono banchi da mercato chiusi la domenica, bensì parte di una baraccopoli abitata da centinaia di persone accalcate; il termine “baracca” è improprio, perché suggerisce almeno una sorta di copertura in lamiera, qui assente. Solo plastica e legname accroccati assieme. Una fila di panni da bambino stesi ad asciugare, chiarisce l’equivoco. Due ragazzine bionde sui quattro e sei anni, mi corrono incontro, mettendosi in posa davanti alla macchina fotografica. La madre assente, secondo le bimbe, è impegnata ad allattare l’ultima criança. La fila di cenci neri prosegue ancora per chilometri, il solleone ora allo zenit, saranno almeno 32°, aggiungetene altri 5 o 6 là sotto, tanto per gradire. Ultima tappa del girone dantesco, da Severino, di professione ferrovelho, ferrivecchi. In piedi davanti al suo “ufficio”, uno scatolone di legno con un divano steso fuori, dove la moglie culla il figlioletto di pochi mesi. Sul prato è sparso il suo campionario di merce, un mucchio di rottami gettati alla rinfusa. Severino ha 40 anni, ma ne dimostra 60, due infarti e un artrosi lombare, mantiene una famiglia di 9 persone, moglie, quattro figli e tre nipoti, con uno stipendio di 480 reais, di cui 180 li paga d’affitto; insieme al figlio di 17 anni cerca di arrotondare, rivendendo cd usati sulla litoranea. Accetta di fare quattro chiacchiere sulla sua condizione, si lamenta per l’assenza di sussidi familiari da parte del municipio, mettendo in risalto che nessuno dei figli va a scuola perché i libri si devono pagare, così come le medicine, solo l’ospedale pubblico gratuito, con i soliti tempi di attesa, anche di mesi, per le visite specialistiche. Gli domando se il progresso, che il Brasile espone nel logo della bandiera, e di cui è uno dei protagonisti mondiali, abbia portato almeno qualche beneficio a livello generale. “Senti, noi tutto questo “Progreso” non lo abbiamo mai visto; anzi, fino a poco tempo fa, avevamo delle risorse, come la pesca e l’agricoltura, che ci permettevano di sopravvivere con dignità. Questo fiume era una miniera d’oro, qui chi voleva pescare tirava su siri (un granchio d’acqua dolce) e sururu (un mollusco pregiato) che vendevi al mercato insieme alla verdura; ora – conclude – a parte l’inquinamento industriale che si riversa ovunque, la gente compra tutto nei supermarket, e gli alberghi hanno i loro fornitori. I mercati muoiono, la pesca muore, e noi moriamo con loro, una morte lenta, ma alla fine così andrà a finire se non cambia qualcosa…progresso? Io ci sputo, sopra questo progresso.”
A differenza di Salvador, quaggiù a Maceio’ la miseria non fa discriminazioni razziali; quelli che non ce la fanno, che siano brancos ou negros, mestiços ou indios, tutti sono nella stessa lama (melma), letteralmente parlando.
Una miseria di larghe vedute.
(Copyright di Flavio Bacchetta – Maceio’, AL – Brasil da il manifesto del 12 giugno 2013)