A Milano sono arrivati in tantissimi da tutta Italia per dare l’ultimo saluto a Lea Garofalo, la giovane testimone di giustizia, uccisa nel novembre del 2009 a soli 35 anni. Ieri l’appello della figlia, Denise Cosco, che vive sotto scorta e che in tribunale ha dovuto deporre contro il padre, Carlo Cosco e altri familiari responsabili del rapimento, della tortura e dell’uccisione della madre. “Venite ai funerali di mia madre” – ha chiesto (La diretta video dei funerali su Rainews24).
La grande partecipazione che si è registrata in piazza Beccaria a Milano è il risultato di un percorso che da alcuni anni sostiene e incoraggia Denise in questa nuova vita sotto scorta, senza la madre e con una nuova identità. Giovani studenti, associazioni, cittadini non hanno voluto rinunciare a onorare la memoria di Lea, il suo coraggio di dire “no” alla ‘ndrangheta e di testimoniare su fatti, circostanze, delitti e traffici illeciti di cui era a conoscenza. Prendiamoci tutti un pezzo di responsabilità in questa lotta alle mafie che passa – nel giornalismo – attraverso una corretta informazione.
Durante tutto il processo, raccontano cronisti come Marika Demaria (la collega che ha seguito tutte le udienze del procedimento giudiziario in primo grado e in Appello) “i Cosco erano infastiditi dalla presenza dei giornalisti”. Si sono dimostrati “irriverenti” verso la società civile e i cronisti. Li hanno più volte, a modo loro, intimiditi con parole e sguardi mirati a scoraggiare il racconto di quello che in quell’aula giudiziaria stava avvenendo. Cosi, oggi, nel giorno in cui si restituisce l’onore a Lea, non uccidiamola una seconda volta – per usare le parole di Luigi Ciotti – con il nostro silenzio o con le parole che fanno comodo ai mafiosi. Scriviamo “testimone di giustizia” nei nostri articoli, usiamo questa parola nelle nostre dirette audio e video, accanto al nome di Lea, semplicemente perché questo è stata: una testimone di fatti, circostanze e delitti, che ha collaborato con la magistratura nell’interesse della libertà di tutti.
Dentro la storia di Lea e Denise c’è quella di un intero paese che, in condizioni difficili e spesso nel silenzio dei mass media, nelle periferie come nelle grandi città, sceglie di sbarrare la strada alle mafie e a tutti i suoi fiancheggiatori. Quando Lea è stata uccisa sono stati pochi i Tg e le testate in grado di capire che non si trattava soltanto dell’omicidio o della scomparsa di una donna a Milano, che non si trattava di un “affare di mafia” interno ad un clan. Pochissimi i taccuini e le telecamere presenti per la sentenza di primo grado. “Abbiamo sbagliato a non capire subito cosa c’era dietro la storia di Lea” spiegò durante una edizione del Festival del giornalismo di Perugia, la collega del Tg1, Emma D’Aquino. Poi, un minuzioso lavoro di ricostruzione dei fatti, alcuni colpi di scena nel dibattimento di secondo grado (uno su tutti la collaborazione di una delle persone coinvolte nel rapimento) hanno portato a ripristinare i contorni di questa vicenda che ci riguarda tutti e a farle trovare il giusto spazio nei nostri Telegiornali, sui quotidiani di carta stampata e on line. Lea non è “la collaboratrice di giustizia”, non è “La donna sciolta nell’acido”, non è “la donna uccisa dal marito”. Lea è prima di tutto una testimone di giustizia e una corretta informazione cosi deve raccontarla oggi e per tutti i giorni a seguire. Ai Cosco, i responsabili del delitto di Lea, ai mafiosi tutti, fa male capire che un Paese intero appoggia la scelta di Lea e quella che porta avanti Denise. Rendiamo l’onore della verità a questa storia, perché possa essere rivoluzionaria come per Lea e Denise è stata la scelta di vivere una vita senza omertà, violenza, paura e solitudine.