Le belle donne di Lampedusa

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La sindaca, la soccorritrice, la migrante. E tutte quelle che non ce l’hanno fatta, sfinite dal viaggio, comprate e vendute. Anche stuprate.

Di Alessandra Mancuso

Quarantasette. Tutti vivi, tutti soccorsi. Da tre persone con una barca, in quel mare di morte. Lei l’abbiamo vista, in una delle prime immagini trasmesse in tv. Piangeva. E’ da quell’immagine che ho capito cos’era successo. Lei era in barca, racconta, per una notturna di pesca col mare bello. Una donna trapiantata a Lampedusa, catanese. Erano in mare in tre, per pescare. E invece sentono urla. E vedono: il mare era pieno, dice. Le teste uscivano come pesci nel mare. Loro ne hanno salvati 47: 46 uomini e una donna. In tutto, con un altro peschereccio, ne hanno salvati cento quella notte. Una strage immane. Erano 500. Quanti, quanti, bambini sono morti?

Un’isola messa in mezzo a un affare sporchissimo. Basta guerre decise a tavolino, dice la soccorritrice. Ma basta anche tollerare che le guerre divampino, guardando sempre, sempre, dall’altra parte, senza intervenire subito. Due anni di guerra civile in Siria, centinaia di migliaia di morti, e di stupri e bambini uccisi anche dai gas, e ancora guardiamo altrove. Delle guerre bisogna occuparsi, e farlo da subito, anche usando le armi come strumento di deterrenza per cercare di non usarle affatto e di fermare quelle che massacrano i popoli. La nostra indifferenza non è meno omicida delle bombe francesi o americane. Senza che queste ultime siano, ovviamente, tollerate. Ora per Lampedusa si propone il Nobel. Ma i politici, dice la soccorritrice, si vedono solo quando ci sono i morti.

La soccorritrice. La sindaca. La presidente. E le sconosciute, morte o sopravvissute, di quel barcone.

Giusy Nicolini, una donna da Nobel, lei sì. Come le tante donne comuni che si meriterebbero il Nobel, e che ci danno orgoglio. Donne che fanno la loro parte, che ci mettono dignità e coraggio, che non si tirano indietro, che non smettono di impegnarsi, in condizioni estreme. Laura Boldrini, la sua faccia ce l’ha messa da sempre. Va a Lampedusa da lampedusana, prima ancora che da presidente. E dice, come la soccorritrice , e la sindaca, la sua rabbia e le cose che vanno fatte. Ma subito. Parlano tutte alle istituzioni, prima ancora che alla politica. E se le istituzioni esistono, è questo il momento per battere un colpo. Definitivo. Cogli l’attimo, ha detto Letta. E allora fatelo.

Di quelle altre donne, invece, non ho i visi, né le parole. Invisibili. Il cuore piange. Vecchie? Giovani? Con i figli aggrappati? Incinte. Con in grembo i figli dello stupro. Subito nel lungo cammino, ma più facilmente, nei campi, nelle prigioni libiche. E’ difficile fermarsi sul baratro dell’orrore. Ma occorre farlo. Anche se non riusciamo a pensare ai bambini, annegati per primi. Fa troppo male.

Donne tutte legate allo stesso filo, nell’immane tragedia. Fatto di umanità, di solidarietà. Non le conosciamo. Non le abbiamo salvate tutte. Ma le sentiamo sorelle. E quando mi chiedo cosa posso fare, di più, da giornalista, penso che ci si debba impegnare affinchè l’informazione, non solo racconti le tragedie come ci dimostriamo capaci di fare, con professionalità, ma che debba riuscire a parlare delle tragedie prima che i morti urlino alle nostre coscienze. Il Darfur, la Somalia, la fame nel Corno d’Africa, il lager dell’Eritrea, gli stupri di guerra, le persecuzioni religiose, tutto ciò che rende pericoloso e invivibile restare a casa. Tutte cose che l’informazione trascura. Perché nell’egoismo dei più e della politica, non esistono. Gli invisibili sono tali per definizione. Almeno finchè, da morti, non vengono a svegliarci a casa nostra.

da giuliagiornaliste.it


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