Per quanto con Berlusconi sia sempre incauto pronunciare la parola fine, una cosa è certa: ieri, nelle Aule parlamentari, è stato definitivamente sconfitto un progetto politico, quello del PDL, che in realtà non è mai nato né ha mai appassionato nessuno, a cominciare da Berlusconi e dai suoi più stretti collaboratori. Il PDL, infatti, se ben ricordate, nacque nel novembre del 2007 sul predellino di una Mercedes in piazza San Babila, a Milano, come risposta alla nascita, nell’ottobre dello stesso anno, del PD veltroniano.
All’epoca, si pensava erroneamente che in Italia fosse in atto un processo di trasformazione bipolare, se non addirittura bipartitica, del sistema politico italiano, al punto che uno degli elementi cruciali della campagna elettorale del 2008 fu proprio l’appello al cosiddetto “voto utile”, teso a premiare le due coalizioni principali e tagliar fuori gli altri, tacciati di estremismo e mancanza di una solida cultura di governo.
A differenza del PD, che pure in questi anni non ha certo dato il meglio di sé, il PDL aveva però un difetto strutturale che negli anni ha pesato fino a condurre alla drammatica implosione di questi giorni: non è mai stato un partito. Nato come cartello elettorale in occasione delle elezioni anticipate del 2008 e trasformatosi in movimento vero e proprio nel marzo del 2009, il PDL ha rappresentato un’operazione più subita che apprezzata dalla maggior parte dei suoi protagonisti, primo fra tutti Fini che, non a caso, tentò fin da subito, con il successo che conosciamo, di introdurvi temi tabù per Berlusconi come il rispetto per la magistratura e la laicità dello Stato. Una destra liberale, insomma, moderna, conservatrice ed europea sul modello del PPE: niente di più dissimile dal partito padronale, a tratti populista e tutt’altro che solido e strutturato che era stata la prima Forza Italia, tanto amata da Berlusconi e da chi aveva vissuto con lui quell’esperienza.
Non sorprende affatto, dunque, che ieri, nel discorso pronunciato al Senato, quella vecchia volpe “democristiana” di Enrico Letta abbia aperto le proprie riflessioni con una citazione di Einaudi e le abbia concluse con una di Croce: due liberali, due modelli politici destinati a far breccia nel cuore di quella parte sempre più ampia del centrodestra italiano che non ha alcuna intenzione di proseguire in eterno l’esperienza delle larghe intese ma non è più nemmeno disposta a sottostare ai diktat e alle bizze di un uomo che oramai, anche a causa delle proprie vicende personali e giudiziarie, ha smarrito da tempo la lucidità necessaria per porsi come il punto di riferimento di uno schieramento politico.
Tuttavia, nelle riflessioni di Letta c’è stato ben altro. Forte della scuola della sinistra democristiana di Prodi e Andreatta, il Presidente del Consiglio è riuscito a condurre in porto un’operazione politica disseminata di pericoli, ossia presentare una proposta chiara, aperta e alla luce del Sole e sfidare in Parlamento gli esponenti del centrodestra, sedicenti “moderati”, a emanciparsi dall’abbraccio mortale con un leader che oramai è solo la pallida ombra di se stesso e anteporre l’interesse del Paese a quelli di un pregiudicato che fatica ad accettare la sentenza di condanna.
Completata la disamina sui guai del fu PDL, è doveroso adesso passare al PD: un partito che, almeno sull’anti-berlusconismo e sulla necessità di voltare pagina rispetto a questo devastante ventennio del nulla, è sempre stato compatto ma che non è ancora riuscito a darsi un’identità e un orizzonte politico ben definito su tutto il resto.
Perché va bene la momentanea euforia per la chiusura di una stagione che ha distrutto e sfregiato l’Italia, va bene l’intima soddisfazione di vedere che, per una volta, sono gli avversari a dividersi e uscire in lacrime, va bene tutto (benché il concetto di vendetta non ci appartenga), ma nessuno, specie tra i dirigenti democratici, può pensare che l’apertura di una fase nuova a destra abbia automaticamente risolto i problemi della sinistra. Anzi, potrebbe essere vero il contrario. Un centrodestra finalmente “presentabile”, per riprendere la battutaccia di Lucia Annunziata ad Angelino Alfano, potrebbe difatti tornare ad essere la casa naturale di quell’ampia parte di italiani che non si riconoscono nella sinistra ma hanno smesso da tempo di riconoscersi in un insieme di formazioni che di moderato e liberale non hanno più nemmeno la parvenza. Sta, quindi, alla sinistra riorganizzarsi e presentarsi preparata a un appuntamento elettorale che la prossima volta potrebbe essere assai più ostico che in passato, contro una destra non più berlusconiana e senz’altro molto simpatica ai poteri forti, occulti e non, che da sempre hanno un ruolo cruciale nel nostro Paese.
Perché ciò accada, però, è indispensabile che la sinistra si liberi del proprio complesso di inferiorità, di quell’idea tanto assurda quanto sempre bocciata dall’elettorato che per vincere si debba andare a destra e torni ad utilizzare le proprie parole: uguaglianza, solidarietà, rispetto, tolleranza, merito, lavoro, dignità, diritti, ambiente, legalità, giustizia, istruzione e cultura; insomma, i capisaldi della nostra Costituzione e di un pensiero progressista maturo, europeista e in grado di esprimere una brillante classe di governo. L’ideale, poi, sarebbe che i vertici del PD capissero fino in fondo che il male di questi quattro lustri non è stato solo Berlusconi quanto, più che mai, il berlusconismo in sé: un’analisi approfondita in tal senso consentirebbe loro di liberarsi rapidamente di quello che Gaber chiamava “il Berlusconi in me” e di compiere una seria autocritica in merito ai troppi cedimenti al liberismo, al populismo e al leaderismo sfrenato e farsesco che hanno caratterizzato la sinistra dal 1994 in poi.
Qualche anno fa, Enrico Letta scrisse un saggio dal titolo significativo: “Costruire una cattedrale”. Dalla cattedrale siamo ancora lontani, ma senz’altro ieri il Presidente del Consiglio ha posto i primi mattoni, aiutando l’Italia a tornare a credere in se stessa e, soprattutto, a pensare in grande.