Entro il 2013 la banca vaticana dovrà mettersi in regola sulla trasparenza finanziaria. Intanto pubblica il bilancio, resta il nodo dei conti esteri.
Di Francesco Peloso
Lo Ior ha pubblicato il proprio bilancio sul sito web dell’istituto e già solo questa notizia, dopo decenni di opacità e segretezza, è una novità di rilievo. D’altro canto il tempo stringe: entra la fine dell’anno infatti la Santa Sede dovrà superare uno scoglio decisivo in materia di trasparenza finanziaria: verrà infatti pubblicato il secondo rapporto di Moneyval (organismo internazionale che certifica la normativa antiriciclaggio dei vari Paesi) interamente dedicato alla Santa Sede. Senza il semaforo verde di Moneyval infatti il Vaticano avrà sempre più difficoltà a compiere una qualsiasi movimentazione di denaro, tuttavia Oltretevere ora fanno sul serio.
I primi dati resi noti ieri sono positivi: nel 2012, infatti, l’Istituto ha registrato “un utile netto di 86,6 milioni di euro (nel 2011 era di 20,3 milioni di euro). Ciò ha consentito allo Ior di apportare un contributo di 54,7 milioni di euro al budget della Santa Sede e di destinare 31,9 milioni di euro alla riserva rischi operativi generali”. Ancora da rilevare che, ancora nel 2012, allo Ior sono stati affidati beni di clienti per 6,3 miliardi di euro, ripartiti in 2,3 miliardi di euro in depositi, 3,2 miliardi di euro in contratti di gestione patrimoniale a cura dell’istituto e 0,8 miliardi di euro in contratti di custodia titoli.
Se questi sono alcuni dei numeri cui fare riferimento, importante è anche ricostruire la sequenza di fatti che hanno portato lo Ior e il Vaticano a una svolta sulla trasparenza ancora in corso d’opera. Nel luglio del 2012 uscì il primo “report’ di Moneyval nel quale si apprezzavano gli sforzi compiuti dal Vaticano ma si segnalavano con precisione diverse inadempienze.
Nel giugno di quest’anno, è uscito un altro documento di Moneyval relativo a tutti i Paesi oggetto di esame da parte dell’organismo, nel quale si riferiva ancora dei ritardi della Santa Sede. Fra l’altro si chiedeva al Vaticano di specificare attraverso un decreto quali persone fisiche e giuridiche potevano avere un conto allo Ior.
Una prima risposta in questo senso è arrivata dal bilancio appena pubblicato nel quale si specifica che la gran parte della clientela è costituita da ordini religiosi, quindi da nunziature e uffici della Santa Sede, e poi da cardinali, vescovi, membri del clero, diocesi e ancora istituzioni educative religiose e impiegati del Vaticano. Si parla poco invece dei conti dei laici, quelli, fra gli altri, sottoposti alle verifiche della multinazionale Promontory financial group incaricata di passare al setaccio ogni angolo dello Ior per vedere cosa non va. Nel corso di questo lavoro è emerso che movimentazioni di denaro sospette – vale a dire estremamente ingenti e con causali fin troppo generiche – avvenivano su conti che facevano riferimento ad ambasciate accreditate in Vaticano. Per questo i conti dei vari Paesi rischiano ora di essere tutti chiusi.
In questo senso è da rilevare che il primo rapporto Moneyval indicava la presenza di 37 conti di ambasciate aperti presso lo Ior e di altri 392 di cui erano titolari diplomatici accreditati in Vaticano. Di fatto, sotto tale profilo, lo Ior assumeva la funzione di una classica banca offshore sulla quale transitavano forti somme di denaro secondo un meccanismo che, almeno potenzialmente, è quello classico del riciclaggio internazionale. D’altro canto il caso di monsignor Scarano e di altri sacerdoti mostra che il comportamento illecito non è prerogativa dei conti laici.
Fra i dati significativi emersi ieri poi, c’è quanto affermato del presidente dello Ior, Ernst Von Freyberg, secondo il quale nell’anno in corso sono state impiegate “enormi risorse” per il processo di adeguamento alle richieste di Moneyval, inoltre peseranno gli “effetti prodotti dai tassi di interesse in aumento”. Lo Ior ogni anno provvede a ripianare i debiti dei bilanci vaticani, se la sua contribuzione diminuisse nei sacri palazzi dovranno ricorrere a tagli di bilancio.
Quest’articolo è stato pubblicato sul Secolo XIX del 2 ottobre