Ho incontrato Lou Reed a Reggio Emilia, lo scorso mese di maggio. In una mattinata abbagliata dal sole di una primavera che faceva i capricci. Che si nascondeva dietro il freddo dell’inverno e che, all’improvviso, folgorava il cielo, facendo di queste sorprese. E Reed era lì. Disteso sulle pareti dello spazio Gerra. Che ti fissava dal bianco e nero degli scatti firmati Mick Rock. Entrambi avevano contribuito a rendere l’altro un’icona. E il fotografo britannico, che a immortalare star della Musica sembrava esserci stato predestinato fin dal nome, aveva firmato anche tante copertine degli album di Reed. Copertine su cui sono fioccati premi e Grammy.
E lo vidi lì Lou Reed. Con il suo sguardo di pietra e ghiaccio. Intenso e malinconico, come di due diamanti tuffati nel carbone. A Reggio era in corso il Festival della Fotografia Europea 2013. E quella mostra era il fiore all’occhiello. La storia e l’evoluzione dello Star System internazionale dagli anni ’70 ad oggi, passava attraverso quei cinquanta scatti. E c’era anche il Reed del terribile trio: con David Bowie e Iggy Pop, al Dorchester Hotel (1972). Biondi, sorridenti e spavaldi i primi due. Nascosto dietro due spesse lenti ner Reed. La leggenda vuole sia l’unica foto in cui le tre star figurano insieme. E infatti, erano solo in due Reed e Bowie, catturati nell’attimo di un bacio al Cafè Royal (1973), all’after party dell’ultimo concerto live della tournée Ziggy Stardust all’Hammersmith Odeon. La storia del Rock passò da quella sala, quella notte.
Poi, Reed abbandonato su un sofa, accanto ad Andy Warhol, a New York nel 1977. Al ristorante One Fifth Avenue, in occasione della festa evento per il lancio di Rock and Roll Heart. Anche in questo caso la copertina era di Mick Rock. Di quell’esperienza, il fotografo ricorda l’impegno come autore del servizio fotografico e della direzione artistica: «Lou mi chiese […] anche di lavorare con lui sulle immagini video che sarebbero state trasmesse su 60 televisori, che facevano da sfondo all’allestimento del palcoscenico per la sua tournée. Lavorai sul pannello di controllo che gestiva gli schermi e feci il doppio lavoro come fotografo». E poi, una nota personale «In quei giorni Lou fumava ancora molto spesso durante le performance». E Rock lo raccontò quel vizio, in un altro scatto magistrale. Il profilo di pietra che si staglia nel buio, delineato dal chiarore di un ardito controluce. E quel bagliore che svela anche il bianco del fumo, soffiato contro il microfono. Contro il pubblico che ascolta, oltre l’inquadratura dell’obiettivo.
Solo l’anno prima, Rock aveva ritratto Reed più giocoso e narciso, per gli shooting che avrebbero decretato il soggetto della copertina di Coney Island Baby (1975): «Lou ha descritto questa session come la sua preferita. Si era appena comprato un mucchio di vestiti in un negozio dell’East Village e voleva sfilare davanti al mio obiettivo con tutti questi abiti. Quel giorno producemmo molte immagini che più tardi sarebbero diventate dei “classici”». Il risultato finale sarebbe stato oltre le previsioni. Un Pierrot degli anni ’70, un clown senza trucco che cela e svela mezzo volto sotto una bombetta.
Poi, i ritratti profondi e penetranti. Sempre con quell’espressione solitaria e accigliata, con quella vena scontrosa e insieme poderosa e affilata. Con quello sguardo triste e severo, quei lineamenti duri, quelle labbra tagliate con la un colpo netto di coltello. Sempre lui. Al trucco, infarinato di cipria, mentre Rock lo sorprendeva alle spalle. Enigmatico, con il mento sprofondato nel cavo della mano: «Lou Reed era un tipo affascinante» ricordava di lui Rock «Non si guardava quasi mai allo specchio, eppure era molto consapevole del suo personaggio. Non ha mai criticato i risultati di un servizio fotografico. Sapeva però subito come usare ciò che gli piaceva».
Sapevo fosse un mito quel Lou Reed. Un mito del Rock. Di quello serio. Di quello che emoziona e prende allo stomaco. Di quello che ti fa benedire di avere in corpo una sostanza che si chiama adrenalina, pronta a scatenare i suoi fuochi e a regalarti emozioni inarrestabili.
Ma non conoscevo la sua discografia. A stento associavo una canzone celebre al suo nome. Però quelle foto erano turbamento allo stato puro. Erano ghiaccio bollente, come diceva Alfred Hitchcock di Grace Kelly. Anche se quel ghiaccio e quelle fiamme avevano anche il pregio di essere in bianco e nero. E di vivere di riflessi e di ombre. Di luci accese e di luci spente. Come lo scatto capolavoro per la copertina dell’album Transformer. Bianco e nero di occhi ed incarnato. Bianco e nero di giubbotto di pelle e chitarra. Bianco e nero di vicinanza e lontananza. Reed è qui e altrove. La sua musica è qui e altrove. «Quando gli mostrai i provini, Lou volle vedere una stampa di questa foto. Facendo il primo test di stampa, non mi accorsi che il negativo era uscito fuori fuoco dall’ingranditore. Questo incidente aggiunse un ulteriore strato al mistero di questa immagine».
Oggi quello scatto è un mito. Come i suoi album.
E che Lou Reed fosse un mito lo sapevo anche io, che non avevo mai pensato lontanamente di poterlo apprezzare.
Poi, oggi pomeriggio. Una sonnolenta domenica di fine ottobre. La Home di Facebook ingombra di aforismi e di freddure spinoziane, di battute sul passaggio da ora legale ad ora solare e di commenti trionfalistici per i match calcistici appena conclusi. Di foto autoreferenziali e di un calembour di materiali disparati. Ma, trascorse da poco le sette, la Rete si incolonna disciplinata, come gli alunni (di altri tempi) al trillo della campanella. Prima di uscire dal portone, messi in fila per due dalla maestra.
Ecco, anche Facebook si mette in fila per due, alla notizia che Reed è morto: e qualsiasi pagina, qualsiasi amico posta un pensiero, una foto, una frase di Reed. Reed l’araba fenice, dato per morto tante volte e che questa volta non ce l’ha fatta sul serio. E a me, che neanche posso canterellare un suo brano, mi tornano alla mente quegli scatti pieni di verità, a Reggio Emilia. Mentre per il mondo intero, quella morte richiama istantaneamente alla memoria la colonna sonora di una gioventù, la data di un concerto, le corse e le sgomitate per un autografo, a me, invece, fa tornare alla mente la mattinata anonima di una piccola città di provincia. E il sole di quel mese di maggio. Che si è spento.
Oggi l’universo della Musica piange un grande talento, un artista straordinario. E molti, che come me non lo conoscevano artisticamente, forse inizieranno a scoprirlo proprio ora, spinti dall’horror vacui di una mancanza. Dal rimpianto di non esserselo goduto prima: e cercheranno di recuperare il tempo perduto. Io rispolvererò gli appunti di quella visita. Le mie impressioni di fronte a quei volti scavati e a quegli occhi acuminati. A quei tratti aguzzi e vigorosi. A quei silenzi che suonavano anche senza note, in una fotografia senza colori.
E mi ricorderò di quel giorno in cui incontrai, senza saperlo, un grande del Rock.