Secondo alcuni analisti – e fra costoro, quello di maggior spicco e convinzione più ferrea è Eric Jackson, di Ironfire Capital Founder – Facebook scoppierà come una bolla di sapone nel 2020. Pazienza. Per quella data sarà sicuramente già pronto un altro strumento per mettere in piazza tutti i nostri fatti e illuderci di scambiarci con gli “amici” informazioni fondamentali di prima mano. Intanto, la corsa ad accaparrarci uno spazio virtuale nell’immenso territorio che dilaga nella Rete (o meglio nelle reti) sembra non avere tregua. Siamo in piena “era biomediatica”, avverte il Censis. Tuttavia, si intravedono lievi fenomeni di decelerazione.
In Italia, per esempio, dopo il vorticoso incremento registrato negli ultimi anni, gli utenti di Internet, si assestano al 63,5% della popolazione (appena l’1,4% in più rispetto a un anno fa). La percentuale, è vero, sale nettamente nel caso dei giovani (90,4%), delle persone più istruite (84,3%) e dei residenti nelle grandi città (83,5%). Ma è poca cosa in confronto a quanto sta avvenendo – nonostante le difficoltà di vario genere, da quelle economiche a quelle dovute a regimi restrittivi – in Asia, Africa e altri Paesi emergenti. E sembra comunque non arrestarsi l’adesione degli italiani proprio ai social network: Facebook raccoglie ormai quasi il 70% di chi ha accesso a Internet (era poco più del 60% l’anno scorso), YouTube supera il 60%, il 15 Twitter.
Dunque tutto bene, almeno fino al 2020? Fino a un certo punto. Perché, almeno secondo l’Undicesimo Rapporto Censis/Ucsi sulla Comunicazione, “L’evoluzione digitale della specie”, sempre più Facebook significa sempre meno giornali. “Assistiamo a un ulteriore salto di qualità nel rapporto degli italiani con i media: – scrive l’istituto – l’interazione tra l’ambiente comunicativo e la vita quotidiana degli abitanti di territori ipertecnologici sta producendo una vera e propria evoluzione della specie”, che possiamo verificare nel consumo mediatico medio.
La televisione resta il mezzo più usato (il 97,4% degli italiani la guarda), ma sono sempre di più coloro – soprattutto i giovani – che la guardano sul computer o sul telefonino. Anche la radio conferma il suo consolidato successo: viene ascoltata da quasi l’83% della popolazione.
E allora, che c’è di male? Il sospetto, tutt’altro che infondato, è che l’attenzione per l’informazione “ufficiale”, quella per intenderci erogata dalle testate giornalistiche, sia quantomeno residuale, che venga prestata nei ritagli di tempo fra un post e l’altro, fra un tweet e l’altro. In altre parole, che sia diventato più importante scrivere e condividere ciò che si è visto accadere, piuttosto che sentirselo raccontare. O leggerlo.
La lettura ormai è la cenerentola fra le attività degli italiani, in particolare dei giovani: calano i lettori dei periodici (settimanali e mensili), dei quotidiani (gratuiti e a pagamento), ai minimi termini gli e-book. In leggero rialzo, manco a dirlo, soltanto i notiziari online.
Ma allora, che ci fanno in Internet? La gente quotidianamente entra in Rete per lo più alla ricerca di informazioni su aziende, prodotti, servizi, oppure di strade e località. Considerevole anche il numero di coloro che ascoltano musica, di chi effettua operazioni bancarie e acquisti, di chi telefona tramite portali voip (Skype), di chi guarda film e prenota viaggi. Clamoroso il numero di chi, soprattutto i disoccupati, cerca lavoro.
Il Censis, dunque, parla di evoluzione digitale della specie. Un’evoluzione, precisa, cominciata venti anni or sono, insieme con l’avvento dei processi di digitalizzazione.
Oggi, la moltiplicazione e l’integrazione dei media consentono una nuova ed enorme chance: la personalizzazione. L’utente può spostarsi autonomamente all’interno del sistema mediatico globale e costruire il suo palinsesto su misura, mettendo a confronto le fonti tradizionali con quelle “non allineate” reperite sul Web. Auguriamoci che il lungo e faticoso cammino verso la verità (ammesso che la verità esista) non sia sempre più accidentato.