Nel suo «Dizionario dei new media» (1999) Stefania Garassini definisce digitale «il modo di procedere dei moderni computer. Tutte le informazioni, di qualsiasi provenienza siano, devono tradursi in formato digitale, ovvero in codice binario… Il digitale ha tuttavia di recente assunto un significato che va decisamente al di là del puro ambito tecnologico per indicare un intero fenomeno culturale». E digitalizzazione, secondo il «Breve dizionario dei nuovi media» (G.Mascheroni, F.Pasquali, 2006), è usato anche quale sinonimo di informatizzazione.
Alla Conferenza di Lisbona sulla Società della conoscenza del 2000 l’allora centrosinistra italiano al governo portò diversi progetti già pre-operativi: la carta di identità digitale, la card sanitaria, il protocollo informatico, e così via. Tamquam non esset. Inerzie spaventose, mancanza (?) di risorse adeguate, ritardi burocratici interruppero rapidamente il sogno, definitivamente trasformato nell’incubo pornografico della televisione generalista a dominante berlusconiana. Anzi. Il centrodestra nostrano, per motivi strettamente aziendali, fece passare l’idea invero balzana che digitale fosse un aggettivo di tv, non già un sostantivo, il linguaggio della nuova era della società, oltre che delle comunicazioni. La tecnica digitale rimase sulla carta, mal vista dai vecchi poteri: quelli palesi e pure quello criminali, perché l’informatizzazione permette trasparenza e tracciabilità, quanto di più insidioso per un capitalismo italiano proiettato alla speculazione e parecchio contaminato.
L’Italia è indietro in tutti gli indicatori e gli analfabeti digitali sfiorano il 40% di una popolazione, già culturalmente compromessa, secondo le lucide analisi di Tullio De Mauro. Ecco, in tale contesto si è tenuta lunedì scorso la «II italian digital agenda», promossa dalla Confindustria, con larga partecipazione dei manager delle imprese e con una impegnata presenza del governo, a cominciare dal presidente del consiglio, che ha concluso i lavori. Sembrava, per l’appunto, un remake, senza autocritica e persino senza memoria. Dopo le parole introduttive del responsabile della organizzazione degli imprenditori Stefano Parisi, che lamentava blocchi e difficoltà, proprio Enrico Letta ha promesso un rilancio dell’«Agenda», rappresentata lì da un più cauto Francesco Caio; e preannunciando una presenza di «lotta e di governo» al Consiglio europeo di domani e dopodomani, che si occuperà anche di tali temi. Anticipati dalla commissaria Neelie Kroes, impegnatissima nel varo del nuovo e contestato pacchetto dell’Unione, centrato sull’obiettivo del mercato unico delle telecomunicazioni. Dove sta la novità, quello essendo un vecchio argomento apparentemente molto arato e normato?
In verità, dalle parole di Letta-Kroes si coglie la volontà – non detta – di dar luogo ad un doppio mercato: quello basico e quello di una quota alta di consumatori, con l’interfaccia di un piccolo gruppo di «campioni» europei. In simile schema, la «neutralità» della rete, vale a dire l’accesso senza discriminazioni o barrire economiche, va a farsi benedire. E’ questa l’Agenda digitale per il 2020? E il governo italiano pensa davvero di alzare la voce senza una linea credibilmente alternativa a quella di questi ultimo quindici anni? Se siamo il fanalino di coda del continente qualche ragione ci sarà. E’ mancata qualsiasi politica tanto della domanda quanto dell’offerta.
Ps: A fronte delle dichiarazioni «evangeliche» di Enrico Letta, l’Italia risulta assente dall’annuale appuntamento dell’Internet governance forum in corso a Bali. Eppure, l’Igf per un periodo fu persino coordinato da un italiano, Stefano Rodotà.
da Il Manifesto