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Il destino delle nostre università

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Le nostre università sono le cerentole dell’Europa. La cifra che ogni italiano spende per finanziare l’università,se si divide l’entità dei fondi destinati agli atenei per il numero dei cittadini arriva alla cifra di cento di fronte ai 150 a testa in Francia e 300 in Germania.Dal 2009 ad oggi i fondi per le università sono diminuiti da 7 miliardi di euro a 6,5.E per quanto nell’attuale governo Letta ci sia un ex rettore della Scuola Superiore S.Anna di Pisa che sia molto sensibile ai problemi della ricerca e degli studi la situazione nel ventennio populista, tutt’altro che finito,è andata peggiorando di continuo ed ora si profila una classica guerra tra i poveri.

Il problema di fondo è certo quello delle attrezzature didattiche e scientifiche(parliamo dei laboratori e delle biblioteche) senza alcun dubbio ma c’è allo stesso modo un problema crescente di ricambio delle vecchie generazioni con le nuove che si affacciano all’orizzonte.E guardando a questo,al ricambio e al rinnovamento degli insegnanti,emerge con chiarezza un elemento su cui in queste settimane sta profilandosi una polemica inevitabile.Basta guardare i bilanci delle università pubbliche dall’estremo Sud al Nord,senza contare come le poche di eccellenze come la Normale di Pisa e poche altre sparse nella penisola,per rendersi conto come siano quelle del Nord e il Centro che ottengono più fondi e partecipano a ricerche insieme con le più rinomate università straniere mentre quelle del Sud e delle isole,grazie all’ultimo decreto Tremonti,si trovano in grande difficoltà soprattutto a resistere e ad ottenere i professori di cui hanno bisogno nella misura necessaria per mantenere il proprio livello o a migliorarlo.

Ora se si va a fondo nell’esame della qualità delle ricerche,come a me è capitato, partecipando negli anni trascorsi al Comitato Nazionale dei Beni Culturali,si può scoprire che in alcune università meridionali i risultati appaiono peggiori di quante sono per alcune caratteristiche organizzative di quegli atenei(un forte individualismo,una scarsa capacità di compiere lavori di gruppi ma a volte ottimi risultati sul piano strettamente individuale)piuttosto che per un livello in assoluto più basso delle loro consorelle del Nord.

E questo cozza contro il grande distacco nell’assegnazione dei fondi che si è ormai stabilizzato nella penisola sicchè si può constatare che,pensando al turn over la media nazionale stabilita dal ministero non supera il 20 per cento dei pensionamenti previsti ma,per fare qualche esempio, a Bari il ripristino è del 6,86 per cento ,a Messina ha la stessa percentuale ma e così a Palermo e lo stesso si può dire per Sassari o per la seconda Università di Napoli o per Teramo ma le cose stanno assai diversamente .Molto diversa è la situazione che caratterizza piccole e grandi università del centro come la Tuscia o del Nord come Milano Bicocca e gli esempi potrebbero essere molto numerosi.

Ora se si conoscono molte università,come è capitato a chi scrive per le centinaia di incontri e convegni ai quali mi è capitato di partecipare,non si ha la sensazione che le differenze,in molti casi ben si intende giustificati da specifiche ragioni,siano così ampie e generalizzate come l’ultima classifica stilata in questi anni,farebbe pensare. C’è insomma in questa differenza così marcata qualcosa che ha a che fare con gli elementi organizzativi e di contorno che differenziano il Sud dal Nord,l’Italia in crisi e depressa,da quella parte del paese che nell’ultimo cinquantennio ha partecipato molto di più dell’aria e dei metodi diffusi nell’Europa sviluppata.

Da questo punto di vista,senza voler criticare radicalmente l’opera del Ministero che negli ultimi anni almeno in parte si è modernizzato,c’è da pensare che al centro si potrebbe fare di più di quel che si è fatto per favorire il progresso degli studi nelle università meridionali visto che queste hanno sempre sfornato ottimi studiosi e studiose in campo scientifico come in quello umanistico. Ci vorrebbe forse una politica nazionale meno constatativa e può capace di intervenire per aiutare gli atenei che hanno serie potenzialità.O mi sbaglio?


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