La rete ha cambiato e sta cambiando l’informazione, oggi possiamo avere notizie in tempo reale anche da luoghi che spesso sono inaccessibili ai giornalisti. I cittadini, grazie ad internet, possono condividere filmati, avvenimenti, testimonianze, diventando di fatto i nuovi cronisti di quest’epoca. Ma questo getto continuo d’informazioni nella rete può anche generare confusione e un proliferarsi di false notizie. Davide Galati (co-editor di *Global Voices in italiano) ci aiuta a capire cos’è il giornalismo partecipativo e quanto questo possa diventare una risorsa importante complementare al giornalismo mainstream.
*Global Voices è una rete internazionale di cittadini che informano tramite i social media e il giornalismo partecipativo, traducendone e rilanciandone i contenuti.
Cos’è il giornalismo partecipativo?
Nella visione mia e di Global Voices/Voci Globali l’informazione partecipativa è un motore di trasformazione sociale che consiste nella conversazione online di ciò avviene ogni giorno tra cittadini di tutto il mondo in maniera orizzontale, condivisa e glocale. Quando riescono a esprimere il meglio di sé, i social media e il citizen journalism, si fanno strumenti di democrazia e trasparenza. Questo va inteso in un’ottica non rivoluzionaria, ma nella prospettiva di un’utopia paziente, non necessariamente in opposizione al giornalismo mainstream (tranne quando questo si fa strumento di potere dall’alto e di controllo sociale), ma come forma complementare ad esso, secondo il concetto di “biodiversità informativa” introdotto in Italia da Gennaro Carotenuto.
Come può un cittadino diventare un citizen journalist?
Sono varie le modalità con cui un cittadino può farsi giornalista partecipativo: il caso base è quando la persona che si trova nei pressi di un evento (incidente, catastrofe, conflitto) possieda la prontezza e la competenza di utilizzare la Rete e farsi fonte di informazione grazie ai social media e a strumenti come telefonini, micro videocamere ecc. In una visione più alta ed ampia, che è quella in cui noi crediamo, il citizen journalist è colui che è capace di acquistare spazi di informazione alternativi a quelli tradizionali, perché esistono problemi di credibilità delle testate, di concentrazione dell’informazione, di agenda-setting delle notizie, che accendono l’interesse dei cittadini consapevoli verso i nuovi canali informativi. Sono diversi anche i modelli di giornalismo partecipativo, che possono andare da realtà puramente “dilettantistiche” a esperimenti basati sull’ibridazione, in una prospettiva che può essere alternativamente a maggior contenuto giornalistico piuttosto che di social media.
Cos’è e perché è nata Global Voices?
Global Voices nasce da una collaborazione tra l’attivista Ethan Zuckerman e l’ex-giornalista CNN Rebecca MacKinnon, è un esempio di realtà ibrida orientata maggiormente verso il modello dei social media e del citizen journalism. La sua creazione deriva dal fatto che Internet è una realtà globalizzata e profondamente poliglotta; quest’ultimo aspetto implica il rischio di un isolamento linguistico. Poiché gli abitanti delle diverse aree sono in grado di interagire nel proprio idioma, questa frammentazione può essere aggravata da diverse visioni politiche (es. Cina vs Usa). Vi è inoltre una profonda iniquità nell’accesso al web tra i nord e i sud del mondo (digital divide), con le società più evolute che impongono la propria cultura dominante. GV opera come struttura-ponte per dare voce e tradurre quelle comunità online che sarebbero altrimenti condannate al silenzio e al disinteresse. L’attenzione è posta su regioni e temi che i media tradizionali spesso ignorano, con grande attenzione alle “periferie” del pianeta.
Quanto è importante la partecipazione dei cittadini e in che modo hanno cambiato e stanno cambiando l’informazione ?
Come scrivevo prima, ciò che secondo noi conta è quella partecipazione dei cittadini che informa una conversazione orizzontale e condivisa in grado di accrescere il tasso di democrazia e trasparenza della società. Anche nel caso specifico di Voci Globali (realtà nata entro Global Voices in italiano ma oggi autonoma) la filosofia di gestione degli articoli che pubblichiamo è nell’ottica di un continuo aggiornamento e scambio di opinioni, motivate e documentate, tra cittadini. L’esistenza di spazi informativi “diversi” come il nostro è un fatto, tuttavia è evidente la difficoltà, soprattutto in Italia, per questi spazi di affermarsi. Spesso accade anche che, dietro alla facciata del “citizen journalism”, si celi l’appropriazione dall’alto, da parte delle testate giornalistiche, dell’operato “gratuito” dei cittadini-giornalisti. Sappiamo che la Rete opera sia nel bene che nel male, il conflitto è aperto, anche se spesso è difficile essere ottimisti.
Come si diventa citizen journalist?
E’ evidente che non esiste una scuola, per quanto online si possa accedere a svariati tipi di corsi di formazione. Nella mia personale esperienza, credo che gli aspetti più importanti della mia crescita siano consistiti nella curiosità, nell’onestà intellettuale, nell’umiltà aperta al confronto con gli altri e alla voglia di apprendere cose sempre nuove in un contesto multidisciplinare qual è quello di Global Voices Online, dov’è possibile incontrare professionisti delle più svariate discipline, a partire naturalmente dai traduttori e dai giornalisti che vi operano.
Qual è stata la reazione del giornalismo tradizionale di fronte all’avvento di quello partecipativo?
Il giornalismo tradizionale è entrato in una profondissima crisi anche per l’impatto della Rete come fonte informativa. Penso ad alcuni casi clamorosi avvenuti negli Stati Uniti, giusto per citarne uno recente, come l’acquisizione del Washington Post da parte del fondatore di Amazon Jeff Bezos, uno dei più brillanti esponenti del web 2.0.
Questo continuo flusso d’informazioni dalla rete non mette a rischio la veracità delle notizie?
Qui entriamo nel campo delle debolezze dei social media e del citizen journalism che rappresenta un capitolo enorme. Di base le tecnologie del web 2.0 consentono di per sé una capillarità di accesso ai fatti che, data l’enormità del sistema, accresce il rischio di false notizie o di manipolazione delle stesse a fini ad esempio politici (com’è stato ed è nel caso delle rivoluzioni in Medioriente, ora ad esempio in Siria, terreno di conflitto difficilissimo da comprendere). Un altro fattore è la tentazione del protagonismo che questi strumenti inducono (cfr “Vertigine digitale” di A.Keen), associata magari al dilettantismo e alla grossolanità. Mi viene in mente il caso delle bombe alla maratona di Boston la scorsa primavera, con l’ormai classica “gara” al click su Twitter che ha comportato il verificarsi di un case study di disinformazione. Come qualcuno ha scritto, quando i social media e il crowdsourcing fanno più male che bene… Va tuttavia anche detto che il crowdsourcing è spesso un buon compagno del fact checking, com’è avvenuto ad esempio nel caso siriano di Amina, finta blogger di Gay girl in Damascus, svelata grazie al lavoro su Twitter di Andy Carvin.
I media generalisti dovrebbero temere il giornalismo partecipativo?
Credo che il giornalismo tradizionale non debba temere quello partecipativo quando si comporta nel migliore dei modi: nessuna realtà di citizen journalism, almeno non la nostra, mira a sostituirsi al mainstream, non ha senso, sono due realtà complementari. Nessuna professione si inventa, e mi pare che sia particolarmente difficile quella del reporter o della grande firma che solo sui giornali si possono trovare – io per primo sono un avido lettore di giornali. Tuttavia il citizen journalism può operare come “watchdog” del mainstream (che di difetti ne ha espressi davvero molti, la sua crisi ne è un riflesso), ma anche e soprattutto mi piace pensarlo come fattore di biodiversità informativa, quello strumento di conversazione online tra cittadini che per gli utopisti del web potrà salvare il mondo…Chissà…
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