Tali considerazioni costituiscono la premessa metodologica dell’unica critica da rivolgere al rilevante lavoro di Baldazzi, l’essere l’apparato dei telegiornali certamente il crocevia decisivo per la formazione del clima d’opinione e del senso comune, dentro però un universo cross-mediale che varia il contesto di consumo. La grande abbuffata della televisione generalista permane e persino aumenta (il Censis rilevò che l’80% degli italiani si fa un’idea con i soli tg), ma il potere dei e nei media muta. La crisi economica costringe a uscire poco – diminuiscono i biglietti del cinema e dello spettacolo dal vivo – e l’elettrodomestico casalingo se ne avvantaggia. Tuttavia, la dieta mediatica nelle generazioni di punta è variegata. Altrimenti, perché il boom di alcuni blog? E come si spiegherebbe almeno una parte del successo del Movimento 5 Stelle? E già, perché nell’analisi quantitativa del settembre-febbraio (le elezioni) di Grillo c’è una traccia relativa e particolare nei tg. Se ne parla per l’assenza o per sferrare attacchi, ma difficilmente in modo discorsivo. Tanto meno riflessivo. Qui sta il limite antico e moderno del sistema informativo nel Belpaese, viziato dall’irrisolto conflitto di interessi e in gran parte controllato dal sistema politico.
Bene ha fatto l’autore a sottolineare la novità di La7 con l’arrivo di Enrico Mentana, capace di rosicchiare audience al tg1 dell’imbarazzante epoca di Minzolini; però, il quasi-monopolio Rai-Mediaset (raiset) della stagione berlusconiana ha sottoposto le news a un’anestesia generale. Con l’autoesclusione dal territorio comunicativo (soft news, gossip) di Studio aperto, comunque testata di riferimento dell’ex cavaliere nei momenti di allarme rosso, ora che il tg4 cerca un tono meno propagandistico rispetto all’epopea di Emilio Fede, il quadro è piatto. Si difende con unghie e denti un po’ spuntati dalla burrasca il tg3, unico riferimento per gli argomenti lontani dai pastoni politici: morti sul lavoro, vertenze, temi sociali, vicende internazionali. Queste ultime spesso rimosse o sottodimensionate da un flusso generale tipico di una (ormai) poco influente periferia dell’Impero. Salvo Rainews, che però non rientra (come Sky e tgcom24) nell’approfondimento offerto dal volume. Insomma, il tg3 resiste e rimane ancorato al calco straordinario del caposcuola (compianto) Sandro Curzi. Ma, si intuisce dalle parole di Baldazzi, la resistenza richiede di mutare passo, perché proprio il pubblico più evoluto e innovativo ha le esigenze maggiori.
Per il resto, il libro coglie le modifiche apportate, finalmente, alla testata ammiraglia da Mario Orfeo, per risalire una discesa vorticosa, o la particolare fisionomia assunta dal tg2, lontanissimo dai fasti degli anni di Andrea Barbato, ma condotto da Marcello Masi in una zona meno gloriosa ancorché pure meno accidentata. Discorso a parte merita il tg5, la corazzata della flotta di Mediaset: apparentemente poco politicizzato nei giorni tranquilli, pronto a scattare quando c’è il richiamo della foresta. E vai con videomessaggi, indigestione di «panini» (invenzione del direttore Mimun?), «sostegni privilegiati». Gli undici mesi presi in analisi da Alberto Baldazzi – coadiuvato da Lorenzo Coletta e Luca Baldazzi- ci rendono un quadro di faziosità e insieme di modestia. Con qualche punta e le eccezioni del caso.
Sembra, in Italia, tuttora viva l’antiquata teoria dei media, la «bullett theory» (teoria della pallottola), che paragonava l’azione delle comunicazioni di massa a un’iniezione sottopelle di idee e comportamenti. Vecchio approccio superato, ma tragicamente ancora vitale nello stato mai diventato nazione mediaticamente moderna. Ora che si avvicina verosimilmente la campagna elettorale e mentre va ricordato che la par condicio vale sempre, l’«Almanacco» diventa una documentazione preziosa. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Le autocritiche ex-post sono forme di insopportabile narcisismo.