L’audizione (prevista oggi) presso la commissione parlamentare di vigilanza sul servizio radiotelevisivo del viceministro allo Sviluppo Antonio Catricalà, che ha delega ad occuparsi di Rai, può cominciare a chiarire qualcosa. Forse. Perché la bozza del contratto di servizio tra lo Stato e la Rai, lo strumento utile per definire la natura effettiva dell’azienda, è pieno di ambiguità e contiene parecchi articoli e commi avvelenati. Prendiamo quello più insidioso, ancorché apparentemente innocuo, l’articolo 23. La consultazione pubblica lì evocata riguarda il rinnovo della concessione generale, che scadrà nel maggio del 2016. Cerchiamo di chiarire.
Il contratto di servizio è solo una parte del tutto (concessione e convenzione, i veri ancoraggi dell’ontologia del servizio pubblico). Ha senso che divenga la fonte per un atto di ben superiore valore? Una sineddoche rovesciata. Quando la logica elementare viene stravolta in genere c’è qualcos’altro, che ancora non appare. Infatti, da tempo vi sono i segni premonitori dell’effettiva volontà che alberga anche nel governo, vale a dire mettere a gara pezzi della Rai, rompendo l’unitarietà dell’apparato e avviando la tanto agognata privatizzazione. Come se non fossero bastate le prove già esibite dai buontemponi del capitalismo italiano: Telecom, Alitalia e via di questo passo. Ecco prepararsi gli strateghi – non paghi delle precedenti disfatte – del fiore all’occhiello di tutte le privatizzazioni. La Rai fa gola per il suo valore assai alto nell’economia dei media, vedi la struttura degli impianti; e per l’inarrivabile simbologia che mantiene come maggiore impresa culturale italiana. Non sarà un caso che tutti gli occupanti del potere vanno subito a mettere sigilli e vessilli alla televisione di stato.
Quello oggi al comando non è tecnicamente un «regime», ma certo ha la smania del conformismo e del pensiero unico. Paradossale, ma ciò che esce dal controllo (per ora, appunto) dei nuovi poteri all’orizzonte è proprio il carattere pubblico della società di viale Mazzini. Non sarà un caso se il contratto di servizio riecheggia nella sua semantica i termini usati dalle Authority quando mettono a gara nei disciplinari porzioni di frequenze e quant’altro.
E non finisce qui. Istruiti da quella chiave interpretativa appaiono meno strani e surreali l’abolizione (nell’elenco dei generi contenuto nell’articolo 6, periglioso riferimento all’estetica dell’offerta) dell’intrattenimento, cioè uno dei punti qualitativi della storia della Rai; o la suddivisione – con bollino blu – tra i programmi di servizio e quelli commerciali. Che un articolato normativo invada i delicati territori dell’espressione è un atto di dirigismo impensabile neppure al tempo di Zdanov. Alla faccia dei liberisti. Ciliegina finale il canone, dove si pasticcia attorno alla sua natura formale di tassa, per convertirlo in un finanziamento per i programmi di qualità. Guai, perché l’edificio dello stato sociale si fonda sui diritti universali e non sulla scelta di ciò che è bello e di ciò che è brutto.
Come direbbe Poirot, l’assassino lascia tracce inequivocabili di cui neanche si accorge.
Ecco, all’articolo 24 si scrive che il contratto di servizio perde in ogni caso vigore il giorno dopo il 6 maggio del 2016. È la data di scadenza della concessione pubblica. Appunto.
La frana è cominciata. Bloccarla è possibile, se il tema riesce ad entrare nella grande lotta per la difesa della Costituzione e se il «servizio pubblico» irrompe a pieno titolo nella discussione sui «beni comuni». Soprattutto se ci si cimenta con l’era della rete, dove un’azienda più libera e moderna potrebbe divenire il luogo del superamento del divario digitale, il navigatore nell’universo dei saperi. Di questo e altro si parlerà sabato a Roma ad Eurovisioni insieme ad Articolo21.