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Come i contenuti generati dagli utenti stanno cambiando il giornalismo

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Federico Guerrini, autore di un ampio studio per il Reuters Institute for the Study of Journalism (Newsroom curators & independent storytellers: content curation as a new form of journalism”) spiega in questa sintesi per Lsdi il processo di ‘’cura’’ dei contenuti generati dagli utenti (gli UGC) e il contributo in termini di arricchimento che essi possono fornire –  E non solo alle redazioni e ai media tradizionali.

E prefigura  la possibilità che questi ultimi, già indeboliti dal calo nei profitti causato dalla digitalizzazione, potrebbero essere ‘’attaccati’’ ora dai nuovi giganti tecnologici, come Twitter, Facebook e YouTube.
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di Federico Guerrini

Una volta venuti a conoscenza dell’esatto percorso dei funerali dell’ex primo ministro Margaret Thatcher, i giornalisti dell’ UGC Hub della BBC (la divisione interna dell’ emittente britannica che si occupa di vagliare e validare i contenuti generati dagli utenti online che possono essere utili per le news) impostarono il lavoro di controllo e filtro con l’ aiuto di una piattaforma di monitoraggio esterna chiamata Geofeedia.

Come spiegato in un case study pubblicato dalla stessa Geofeedia, il team “stabilì un flusso di lavoro attraverso cui monitorare i social media in tempo reale, per identificare contenuti interessanti e unici, interagire con utenti specifici che postavano sui social media, per avere il permesso di ripubblicare i loro contenuti e poi ripostarli, collocandoli su una mappa, in modo da presentarli a un’ audience più ampia”.

Il team identificò centinaia di contenuti rilevanti fra quelli postati on line durante la processione. Di questi, una settantina, una volta ricevuto il consenso dell’autore, furono presentati dalla BBC sulla mappa.

L’ uso della geolocalizzazione per gestire e presentare a un’ audience i contenuti generati dagli utenti è una delle tendenze che ho analizzato nel paper “Newsroom curators & independent storytellers: content curation as a new form of journalism”, che ho scritto per il Reuters Institute for the Study of Journalism di Oxford.

Nel paper tratto in profondità il processo di “cura” dei contenuti generati dagli utenti, che consiste nel raccogliere, verificare, presentare e conservare il materiale caricato online da possessori di smartphone o altri device e condiviso con altri utenti Internet.

Dall’ analisi, oltre all’ uso della geolocalizzazione, un’ altra chiara tendenza è quella all’ outsourcing e all’automazione di una delle principali componenti della cura dei contenuti online: la verifica. La copertura imprecisa data da alcune redazioni – anche di grandi dimensioni, come Cnn – nel corso degli attenti alla maratona di Boston, fornisce un esempio recente delle sfide relative alla verifica delle informazioni nell’era dei social media.

Mentre gli UGC a volte rendono possibile documentare quello che sta accadendo in luoghi che altrimenti sarebbero fuori dalla portata dei giornalisti (per esempio, la Siria), setacciare i social network per scovare informazioni valide è un compito che richiede abilità che non sempre si trovano nelle redazioni. Ecco perché alcuni grandi player hanno iniziato a fare affidamento su servizi esterni che li aiutino a raccogliere e verificare i contenuti.

Una delle maggiori agenzie che forniscono questo tipo di servizi è Storyful. Con sede a Dublino, ma uffici anche a New York e Hong Kong, impiega una trentina di persone, sia giornalisti che sviluppatori, che fanno affidamento su una combinazione di algoritmi e apporto umano per identificare su social network come Twitter o YouTube i primi segnali di qualche evento meritevole di attenzione.

Benché il lavoro di Storyful sia senza dubbio accurato e degno di fiducia, l’outsourcing di una competenza chiave come quella della verifica dei contenuti a un servizio esterno solleva alcune questioni di non poco conto. Possono le organizzazioni che accettano un tale genere di accordo continuare a definirsi “giornalistiche” tout court? Quali sono i lati negativi di perdere (almeno in parte) il controllo su questo tipo di competenze?

Un altro fenomeno che cito nel paper è l’emergere di quelli che chiamo “independent storytellers”, narratori indipendenti. Cosa accade quando i cosiddetti “citizen journalists” – spesso, anche se non necessariamente, attivisti, o persone che sanno adoperare la tecnologia – iniziano non soltanto a produrre i propri contenuti, ma anche a curare gli UGC prodotti da altri? Soltanto pochi anni fa, le voci più ascoltate, al di fuori del circuito dei media mainstream, erano quelle di autorevoli blogger, la cui popolarità si basava per lo più sull’esprimere la loro opinione con post testuali sui loro siti o nel rivelare aspetti nascosti della situazione del proprio paese.

L’emergere di piattaforme come Storify rende la “cura” dei contenuti visuali (e testuali) molto più semplice, e accessibile a tutti coloro che hanno voglia di dedicare tempo ed energie a creare la propria narrazione di un certo evento. Selezionando immagini, video, link e altri tipi di contenuti caricati online, e twittandoli in sequenza, o combinandoli in una narrazione cronologica più sofisticata si siti come Storify o Tumblr, questi narratori indipendenti sono spesso in grado di fornire una prospettiva differente da quella dei media mainstream. Complementare, in alcuni casi, alternativa in altri.

Non soltanto gli attivisti, ma anche altre categorie di persone che sono coinvolte nella diffusione delle notizie potrebbero trarre vantaggio dalle nuove possibilità di curation: per esempio media stranieri, impossibilitati a  dislocare corrispondenti all’estero a causa di tagli nei costi o perché è impossibile entrare in certe regioni. In alternativa, i freelancer o aspiranti giornalisti potrebbero adoperare le opportunità offerte da Storify o da altri strumenti di curation per mostrare e dimostrare le proprie abilità ai grandi gruppi mediatici, guadagnandone in popolarità e visibilità.

Una cosa da tenere presente è che questo tipo di lavoro potrebbe raggiungere in futuro un pubblico più ampio, grazie ad alcuni sviluppi nel campo della traduzione online. Dal luglio 2013, Twitter ha lanciato (in via sperimentale) un nuovo strumento che traduce automaticamente i tweet tramite Bing, il motore di ricerca di Microsoft. I tweet appaiono in lingua originale, e cliccando un piccolo pulsante “translate now”, il tweet tradotto viene mostrato in caratteri più piccoli al di sotto. All’inizio, il network ha cominciato a sperimentare questa funzione in Italiano, Francese, Spagnolo e Arabo.

Quella che potrebbe sembrare soltanto una caratteristica marginale, potrebbe in realtà avere serie implicazioni sul futuro sviluppo delle news online, dando modo a narratori indipendenti e blogger di bypassare il filtro dei “curatori” occidentali e raccontare al mondo in tempo reale ciò che sta accadendo. Naturalmente, serviranno sempre reporter sul campo, così come redattori che aiutino a dar senso a quelle che altrimenti potrebbero apparire soltanto delle sequenze di testo di 140 caratteri, non collegate da un significato comune.

Ma gli “Andy Carvin” del futuro opereranno probabilmente in maniera diversa: da un lato, espandendo il raggio delle fonti disponibili grazie al superamento della barriera linguistica; e dall’altro, essendo soggetti a un controllo molto più intenso, via via che il pubblico confronta le loro narrazioni con quelle di un numero molto maggiore di testimoni che vivono in contrade remote.

Ultimo, ma non meno importante, c’è la questione della conservazione dei dati. Progetti come “Reading the Riots” del Guardian, hanno mostrato come i dati condivisi dagli utenti online siano un’immensa miniera da cui attingere per analisi approfondite da fare non soltanto in tempo reale ma anche molto dopo che un evento ha avuto luogo. Tuttavia, affinché ciò sia possibile, i dati devono essere immagazzinati, conservati e resi disponibili alle redazioni (o ad altri soggetti, per esempio attivisti o ricercatori).

Altrimenti, a causa di violazioni di copyright, chiusura di siti Web o altre ragioni, potrebbero diventare rapidamente indisponibili. Nello studio “Losing my revolution: How Many Resources Shared on Social Media Have Been Lost?” (http://arxiv.org/abs/1209.3026) pubblicato nel settembre 2012 Hany M. SalahEldeen e Michael L. Nelson, due ricercatori dell’Università di Old Dominion (di Norfolk, Virginia) hanno analizzato sei diversi dataset relativi a eventi significati e composti da risorse condivise sui social media dal giugno 2009 al marzo 2012, scoprendo che dopo il primo anno dalla pubblicazione, quasi l’11% delle risorse condivise sarebbe andato perduto e in seguito il trend sarebbe continuato al ritmo dello 0,02% di risorse perse al giorno.

È qualcosa che dovrebbe preoccupare i media, dato che sempre più, la copertura di grandi eventi viene svolta attraverso i live blog, pieni di contenuti generati dagli utenti che potrebbero facilmente scomparire, lasciando un messaggio “non trovato” al posto di un video o di un’ immagine suggerita.

Un’ altra possibile fonte di preoccupazione, per gli editori, è il fatto che i dati condivisi online, in gran parte, non appartengono ai media: sono asset delle compagnie tecnologiche che potrebbero utilizzarli per diventare, sempre più, “media companies”, un processo a cui in realtà stiamo già assistendo. La recente assunzione da parte di Twitter del data editor del Guardian, Simon Rogers e l’ attuale ricerca di un “head of news” da parte della stessa società, assieme al trasferimento di due altri impiegati del Guardian (Joanna Geary e Hannah Waldram) rispettivamente a Twitter e Instagram, sono tutti segnali che puntano in questa direzione.

Le società tecnologiche hanno già sconvolto gli equilibri di diversi settori, sfidando domini consolidati: Amazon lo ha fatto con gli editori di libri, Skype con i gestori di telefonia, Apple, con iTunes, con le major dell’audiovisivo. Giornali e emittenti televisive, già indeboliti dal calo nei profitti causato dalla digitalizzazione, saranno i prossimi a soffrire la competizione di nuovi arrivati come Twitter, Facebook e YouTube?

da lsdi.it


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