Oggi 9 ottobre sono cinquant’anni tondi dalla strage del Vajont. E tutto sembra essere stato detto, scritto, fotografato, recitato. Cosa ci sono andate a fare, allora, ieri notte ad Erto e Casso un centinaio di persone provenienti da mezza Italia per una notte bianca organizzata dal gruppo “Cittadini per la memoria del Vajont”? L’oltraggiosa ricostruzione negazionista operata l’indomani della tragedia dall’Enel, dai governi, dal Quirinale, dall’intero apparato mediatico di stampa e televisione (l’Unità di Tina Merlin eccezione unica e isolata), è stata lentamente demolita nel corso di un iter processuale estenuante che hanno voluto si svolgesse distante dal Piave (all’Aquila) e, soprattutto, grazie alla tenacia di pochi sopravvissuti e testimoni, che a costo di rifiutare ricchi risarcimenti, hanno voluto andare fino in fondo nella ricerca delle responsabilità. La “svolta”, forse, nella coscienza collettiva nazionale, è avvenuta molti anni dopo grazie all’opera di Marco Paolini. Se volete davvero commemorare quei 1910 morti scaricatevi dal computer e rivedetevi Il racconto del Vajont, registrazione dell’“orazione funebre” andata in scena sulla frana ai piedi della diga nell’anniversario del 1997. Altro che “disgrazia”, “montagna crudele”, evento naturale imprevedibile, tragica fatalità e via mentendo! All’opera c’erano criminali professionisti dell’industrializzazione forzata. Assassini integrati nell’ordinario sistema economico. Mercenari reclutati nelle pubbliche amministrazioni, nelle università, nei giornali dalle società energetiche (Sade e poi Enel). E’ solo storia passata? Un errore sfuggito al controllo del sistema? Oppure c’è una logica persistente alla origine dei disastri industriali che va ancora individuata e smascherata? Di questa seconda opinione sono le persone che si sono date appuntamento attorno ad un falò sotto il pauroso sbrego del monte Toc, la scorsa notte, per iniziativa dell’infaticabile giornalista Lucia Vastano, autrice di Vajont, l’onda lunga (Ponte delle grazie, 2008). La lunga catena dei crimini industriali incominciata col Vajont è proseguita a Seveso (10 luglio 1976), alla Stava (19 luglio 1985), con la Moby Prince (10 luglio 1991), con i morti dell’amianto, del Cloruro di Vinile Monomero, con la Thyssen Krupp, con l’Ilva a Taranto… solo per citare i casi più “famosi”. Ma se una frana, un incendio, o un angiosarcoma epatico e una asbestosi hanno la particolarità di essere facilmente riconducibili alla loro causa (perizie dei tribunali permettendo), quante sono le sostanze tossiche nocive, i materiali cancerogeni, gli inquinanti che minano silenziosamente e anonimamente, ma inesorabilmente, la salute delle persone, lavoratori di fabbrica, o abitanti di territori sfortunati o consumatori tenuti all’oscuro dei micidiali cocktail chimici presenti nei cibi industriali e negli oggetti d’uso comune? Associazioni come Medicina democratica, Medici per l’ambiente e pochi altri singoli, coraggiosi e disinteressati epidemiologi, ecologi, geologi si mettono a disposizione dei comitati e tentano di colmare i paurosi vuoti delle Agenzie per l’ambiente, del Cnr, delle Università che, quando non sono distrutte dai “tagli”, sono finanziate, direttamente o indirettamente, dalle stesse industrie. Coloro che si scandalizzano per le troppe numerose contestazioni dei cittadini contro la presunta pericolosità delle opere infrastrutturali e tecnologiche, fingono di non sapere che nel nostro Paese le commissioni di Valutazione di impatto ambientale sono una barzelletta, tanto sono lottizzate e asservite agli interessi dei “promotori”. Solo qualche bravo e raro magistrato inquirente riesce ad avere le risorse necessarie per svolgere analisi scientifiche serie e neutrali. Ed è per questo che per tanti cittadini l’ultima speranza di fermare le mani assassine della “ragione economica” industriale è riposta nella magistratura. Non più certo nelle istituzioni della politica. Nessun Presidente della Repubblica si è ancora scomodato nel proclamare formali scuse alle vittime del Vajont a nome dello Stato italiano. Attorno al falò, in quel luogo sacro della memoria, ascoltando la storia di Pierina Casanova Stua, sfuggita a due guerre mondiali, ma non alla piena del Vajont, ricostruita da Giampiero Palmeri e raccontata da una compagnia teatrale ladina (www.ilmiolibro.it), e molte altre tragedie contemporanee, la nostra attenzione non va ai morti, ma al dolore non rimarginabile dei nostri amici sopravvissuti, dei parenti, dei figli delle vittime. Nella certezza che l’elaborazione del loro lutto potrà avvenire solo se l’intera società saprà capire che non vi è sviluppo, crescita, benessere se il loro costo comprende la vita anche di un solo essere umano. Solo così diventeremo sufficientemente forti da poter respingere il “ricatto occupazionale”, l’accettazione del rischio, la mercificazione dei nostri stessi corpi.
Casso 6 ottobre 2013
paolo.cacciari_49@libero.it