Bernardo Bertolucci ci ha dato una grande lezione di cultura, premiando, per la prima volta al Festival del Cinema di Venezia, un documentario: Sacro GRA di Gianfranco Rosi. Finalmente il documentario ha avuto la consacrazione che merita. Mentre lo ascoltavo parlare della “forza poetica” del lavoro di Rosi, ho pensato che sono i personaggi come Bertolucci che mancano alla Rai, ma non a caso vengono tenuti lontano. Non ho dimenticato la drammatica lettera che l’autore di Novecento scrisse nel 2007 in risposta alle parole di Berlusconi dette in un tg: “Dal governo di centrosinistra vogliamo azioni, ma concreti, tutto il resto… è poesia”. Per il Cavaliere contano solo gli affari tutto il resto è “più o meno un dileggio”. Nella lettera Bertolucci sottolineò il disagio provato in campagna elettorale (Prodi tornò al governo per la seconda volta), perché non aveva mai sentito pronunciare dai politici, che si apprestava a votare, la parola cultura. Il grande regista si domandò anche perché in Italia non sia stato possibile la nascita di un canale come Arte. In Italia contrariamente alla Francia è solo la politica che decide chi deve fare cultura e meno se ne fa meglio è per il potere. Il documentario è cultura ma ragioni commerciali e di ascolto lo tengono lontano dalla tv. In Rai, nel servizio pubblico, il genere è solo per pochi intimi: dopo le 23 su Rai3 o su qualche canale tematico come Rai Storia o Rai5, altrimenti un telespettatore che già paga il canone deve sobbarcarsi anche l’abbonamento a Sky che ha una buona offerta divisa per contenuti. La Rai dovrebbe avere nel contratto di servizio, che stipula con lo Stato, una clausola che la obbliga ad istituire una commissione fatta da esperti (Bertolucci sarebbe il presidente ideale) per valutare sia i progetti meritevoli di finanziamento sia i documentari autoprodotti validi per essere trasmessi però in orari di buon ascolto e con cadenza settimanale. Esattamente come fanno le più importanti tv del mondo che proteggono il genere e lo considerano un’eccellenza, perché è sempre stato una palestra per scoprire talenti. La maggior parte dei grandi cineasti sono partiti dal documentario poi sono arrivati al lungometraggio, come è accaduto per Gianfranco Rosi, i cui lavori hanno vinto premi nazionali e internazionali ma in Rai non sono mai arrivati. La responsabilità è anche di chi fa tv: di fronte a direttori incolti è preferibile l’autocensura per sopravvivere. Quello che è accaduto a Venezia non deve rimanere un episodio isolato. Viva Rosi, viva Bertolucci.
Da Il Fatto quotidiano