Aveva ventisei anni e una bimba di poco più di un anno quando è morto. Si chiamava Rami al-Sayed, e le modalità della sua morte sono molto interessanti. Primo: è morto per “impedito soccorso”, sanguinava da tre ore nell’ospedale da campo di Bab Amro, sotto assedio da parte dell’esercito siriano “lealista”. Secondo: il video che documenta la sua morte indica che è stato ucciso con armi proibite. Terzo e forse più importante: è stato ucciso per il suo lavoro, il citizen journalism. Da solo aveva scaricato sul canale Youtube di sua proprietà ben ottocento video che documentavano e documentano la ferocia dei bombardamenti, delle esecuzioni, delle devastazioni causate dalla guerra scatenata contro il popolo siriano non oggi, ma nel 2012.
La sua morte, qui da noi, ha fatto notizia: non come quella -drammatica- dei giornalisti europei che perirono nell’assedio medievale di Bab Amro, ma ha fatto notizia. Ora è dimenticata, come la stessa carneficina di Bab Amro. E’ istruttiva la battaglia di Bab Amro. La giornalista francese, collaboratrice di Le Figaro, disse che gli insorti locali la trattarono bene, la curarono per quanto fosse loro possibile. Poi fu trasportata da qualcuno, al rischio della sua vita, fuori da quell’inferno. Strani tipi questi terroristi…
Bab Amro, per chi non lo ricordi, è il quartiere di Homs, città sunnita, città insorta e città strategica nella mappa siriana, soprattutto nella prospettiva di una sua possibile partizione, quella della quale magari si parlerà a fine mese a Ginevra. Ma torniamo a Rami al-Sayed. Quella tragedia, che è di appena un anno fa e che è riuscita a lambire financo le nostre coscienze, è stata documentata soprattutto da lui, da un giovane di 26 anni. Chi domani cercherà di cancellarla, dovrà prima cancellare gli ottocento video che il ventiseienne Rami al-Sayed ha scaricato sul canale Syrianpioneer. Un documento di eccezionale importanza per il giornalismo di tutto il mondo.
Ora che l’ONU certifica che l’esercito del Sig. Bashar al-Assad spara contro gli ospedali, dunque contro medici ma soprattutto contro feriti,e che ha usato le armi chimiche contro il suo popolo, propongo (raccogliendo una indicazione indiretta in tal senso dell’amico Shady Hamadi) che nell’approssimarsi del secondo anniversario dal barbaro assassinio di questo giovane collega, che cade alla fine di febbraio 2014, la Federazione della Stampa Italiana, magari d’intesa con altri Federazioni e organizzazioni del giornalismo, istituisca un premio internazionale Rami al-Sayed.
Essere per la pace, come sono i giornalisti, vuol dire anche ricordare chi ha documentato gli orrori della guerra, sperando che serva a evitare che si ripetano. A giudicare da quel che accade non va così, ma noi non dobbiamo rinunciare. Nè alla speranza, né alla testimonianza.