Quando, lunedì scorso, Dario Franceschini ha annunciato, dal palco della Festa Nazionale di Genova, che AreaDem al prossimo Congresso sosterrà Renzi, molti amici mi hanno domandato: e tu che fai? Sanno bene, infatti, che, come attivista e militante del PD, ho due caratteristiche: quella di non amare Renzi e quella di aver sostenuto con convinzione la Mozione Franceschini alle Primarie del 2009.
La malevolenza corrente, che di questi tempi come sapete abbonda, ha subito etichettato Franceschini e i parlamentari di AreaDem come dei “voltagabbana” e dei “traditori”: l’area, infatti, alle Primarie dello scorso autunno per la scelta del candidato premier, si era schierata convintamente dalla parte di Bersani. I peggiori, poi, sono arrivati a darmi dell’illuso e a spiegarmi, dall’alto del loro magistero, che non si può pensare di restare in un’area senza condividerne le scelte, ignorando evidentemente il fatto che io condivida quasi tutte le idee e le posizioni del gruppo di AreaDem eccetto, per l’appunto, la decisione di sostenere Renzi al Congresso. “Ma è l’aspetto più importante, il punto cruciale: non puoi eluderlo, non puoi pensare di cavartela così” mi ha fatto notare qualcun altro, non comprendendo che un’area culturale non è, per sua natura, una gabbia o una caserma e che la lealtà, la stima, l’amicizia e la condivisione ideale con delle persone non presuppongono, anzi direi che escludono, la fedeltà assoluta “nei secoli dei secoli”, come se uno non potesse coltivare anche un pensiero autonomo, possibilmente autorevole, da confrontare con gli altri nelle opportune sedi.
I meno malevoli, diciamo coloro che non sono animati da un’inspiegabile sete di vendetta per le splendide e correttissime Primarie dello scorso autunno, si sono limitati invece a domandarmi cosa ci sia nel pensiero e nell’azione di Renzi che proprio non riesce a convincermi.
Le argomentazioni migliori me le ha fornite una bella analisi di Stefano Menichini, nella quale il direttore di “Europa”, che con ogni probabilità voterà per il sindaco di Firenze alle Primarie di quest’autunno, afferma: “La politica però è anche altro. E dalla circostanza che Renzi sia un candidato segretario del tutto improvvisato non si sfugge. Ora il sindaco ha capito che, per motivi contingenti e storici, non si può pensare di cambiare l’Italia senza passare dalla conquista del PD, ma è evidente che ha idee approssimative su che cosa fare del partito, come guidarlo, come dargli un gruppo dirigente degno di questo nome”. E aggiunge: “Fra i suoi tanti sostenitori, i meno avventurosi cominciano a guardare oltre il vento del successo, oltre la conquista di tutti gli obiettivi, perfino al di là di palazzo Chigi: con la velocità della politica contemporanea, senza un partito che ti sostenga convinto fai presto a essere il Grande Vincitore nella primavera del 2014, e il Grande Fallimento nella primavera del 2015”. Infine, con una punta di malizia, pone l’accento sulla fragilità di alcune scelte compiute in passato dal “rottamatore”, sostenendo che “Renzi non spartirebbe una vittoria, non è il suo stile, e nessuno gli chiederebbe di farlo. Ma dall’interno della sua ristrettissima cerchia di amici (perfino in via di ulteriore restringimento, a quanto pare), il sindaco non può non constatare la fragilità del suo stesso manipolo di parlamentari. E quindi fare una riflessione sull’urgenza di dotare finalmente il PD di un gruppo dirigente giovane ma solido d’impianto, leale al segretario ma dotato di autonomia di pensiero, post-ideologico ma non ballerino, selezionato non sulla base delle logiche tribali degli ultimi anni bensì sul giusto mix fra legittima ambizione personale e condivisione di un progetto collettivo di discontinuità e di drastico cambiamento del Paese: tutti requisiti per i quali i renziani doc, come è evidente, non bastano”.
Conoscendo Stefano, vi confesso che, quando ho letto queste considerazioni, sono saltato sulla sedia, iniziando a riflettere sul fatto che nemmeno il detrattore più accanito fosse mai arrivato a tanto, ossia a mettere in dubbio non solo alcune delle sue scelte pregresse ma addirittura la validità stessa delle sue scelte umane, esprimendo una perplessità non eludibile in merito alla sua capacità di selezionare al meglio la classe dirigente del partito.
Ora, sono certo che Stefano lo abbia fatto per stimolarlo, per consigliarlo, per agevolare e non certo per bloccare la sua corsa verso la conquista della segreteria, ma quelle parole e i concetti che esse esprimono restano, pesanti come pietre, sul cammino di un uomo che ama dipingersi senza macchia e senza paura, senza ombre, senza debolezze, senza mai nemmeno accennare alla possibilità di avere un dubbio o un’esitazione.
Perché il rischio c’è ed è nostro dovere darne conto per tempo, ovvero che il fenomeno Renzi, al netto di coloro che, per dirla con Flaiano, si dedicano all’antico sport nazionale di “correre in soccorso del vincitore”, sia più che altro frutto di una sorta di isteria collettiva da parte di un popolo, quello democratico, che un anno fa, nonostante la crisi e la montante marea grillina, accarezzava il sogno di tornare finalmente al governo dopo la sfortunata esperienza di Prodi e oggi si trova a dover sostenere nuovamente un esecutivo di larghe intese con Berlusconi, reso ancora più insopportabile dalla tragica notte dei centouno e dalla mancata elezione di uno tra il Professore, Marini e Rodotà alla presidenza della Repubblica.
È comprensibile, dunque, che, essendo Renzi accreditato come l’unico in grado di battere Berlusconi e porre fine a questo ventennio barbaro, quel popolo, stanco, disorientato e disilluso, si aggrappi a lui come a una sorta di ancora di salvezza, l’ultima possibilità prima del naufragio definitivo.
Peccato, però, che, a dispetto delle sue dichiarazioni d’amore e dei suoi proclami di fedeltà, sia ancora considerato da molti come l’interprete di una sorta di “berlusconismo gentile”, colto, elegante, scevro da scandali e reati, ma non certo radicalmente alternativo rispetto al modello che ha condotto il nostro Paese a un passo dal baratro o, comunque, non sufficientemente diverso nei toni, nei modi, nei contenuti e, aspetto tutt’altro che secondario, nelle caratteristiche umane che, al di là dei commenti sprezzanti dei cinici di professione, sono molto importanti in politica.
Senza contare che lo stesso Renzi ha escluso per mesi la possibilità di candidarsi a segretario, non ritenendosi lui stesso, per una volta a ragione, all’altezza di ricoprire un ruolo che, per sua natura, presuppone capacità di dialogo, mediazione e confronto e, soprattutto, una straordinaria dose di umiltà nel valorizzare le idee degli altri, ritenendo le proprie valide ma non insindacabili.
Per non parlare poi della necessità di ricostruire dalle fondamenta un edificio le cui macerie hanno bisogno di cura e dedizione, di un impegno profondo e a tempo pieno, non di una semplice mano di vernice, come se la ferita dei centouno si fosse già rimarginata e come se le guerre per bande che hanno condotto la struttura al collasso appartenessero ormai al passato.
Ha idea, Renzi, del compito che lo attende nel caso in cui dovesse diventare segretario? E, soprattutto, avrà la pazienza e le qualità morali e politiche adatte per ricostruire un partito che deve tornare ad essere un grande soggetto collettivo, un luogo di studio, elaborazione e confronto, un punto di riferimento per una società ferita e priva di luoghi fisici in cui sfogare la propria rabbia, la propria disillusione, il proprio profondo disincanto e in cui trasformare questi tre mali assoluti dell’Italia contemporanea in energie, proposte e soluzioni per ripartire insieme? Oppure, come sospettano in molti, intende servirsi del PD come trampolino di lancio per puntare a palazzo Chigi, trasformando il partito in un comitato elettorale permanente, privandolo di quegli spazi di elaborazione e confronto di cui, oggi più che mai, la comunità avverte il bisogno e piegandolo alla logica di un leaderismo tanto berlusconiano quanto inutile e dannoso?
Per dirla con le parole di Dario Franceschini: saprà unire il PD o punterà ancora una volta sulla divisione, la rottamazione e lo scontro come lo inducono a fare alcuni suoi sostenitori della prima ora, il cui unico obiettivo sembra essere quello di spazzar via la nostra cultura e le nostre tradizioni per sostituirle con un qualcosa di ignoto e, al momento, indefinito?
In attesa che qualcuno risponda a questi quesiti, mi appello al grande Pietro Ingrao e alla sua arte del dubbio: cari compagni, cari amici, mi spiace, ma “non mi avete convinto”.