I bambini dei sobborghi di Damasco giacciono allineati, avvolti nei loro stracci colorati, con le braccia incrociate sul petto, come in un’ultima difesa della vita. Immobili nel loro ultimo sonno sotto un infinito lenzuolo bianco, che lascia scoperti solo i volti di un’infanzia violata. Squarciano le coscienze intorpidite dalla vacuità del Nulla delle nostre vite occidentali, mentre rincorriamo l’effimero senza interrogarci sul senso dell’essere. I bimbi siriani si stringono l’uno all’altro sotto teli di plastica nera, come gioielli preziosi gettati via insieme alla spazzatura. Il conto delle piccole vittime si perde, il presente ci colpisce come un pugno nello stomaco, la memoria torna indietro nel tempo, ai bimbi di Sarajevo che nessuno ricorda più, alle parole scambiate con Milomir Kovacevic, fotografo di un paese dissolto dalla guerra, che ha ritrovato una patria a Parigi, con i ricordi della sua identità frantumata tatuati sul cuore. Il suo archivio di memorie fotografiche è diventato una mostra, “I Bambini ela Guerra”, alla libreria “Comme un roman” in rue de Bretagne, e un libro, “Sarajevo” (Photo Poche ed.), per ricordare a tutti che il passato torna sempre e la ferocia umana non conosce confini né tempo né spazio.
“Un souvenir de Sarajevo et de notre triste histoire” è la dedica che Milo mi ha scritto sul risvolto di copertina, incrociando il suo sguardo malinconico e ricco di vitalità con il mio, mentre sorseggiavamo un vino in una vecchia brasserie del Marais, fra un’umanità perduta nei propri incanti e rimpianti quotidiani, evadendo in parte le mie domande straniere su una realtà che bisogna aver vissuto davvero per comprenderla. Si deve fare un passo indietro, ascoltare, tentare di vedere con gli occhi del cuore, in silenzio.
“Il tutto è cominciato quando comprai la mia prima Nikon. Al CEDUS, un club universitario di fotografia di Sarajevo dove passavo la gran parte delle mie giornate, tutti avevano già un buon apparecchio. Da quandola Nikonè entrata nella mia vita, mi sono messo a scarpinare per le strade di Sarajevo e a riprendere di nascosto i visi e le situazioni senza sosta, come guidato da una forza invisibile. Appesa al collo o tenuta leggermente in mano,la Nikonmi ha permesso di rompere le distanze, di vincere la mia timidezza, di piombare persino nelle profondità della realtà e di perdermi in essa come preso da un fervore senza limiti”. La guerra è come la febbre: “E la mia macchina era il termometro degli avvenimenti, mi rendeva intoccabile. Era il mio scudo e la mia spada, la mia compagna fedele.”
I rullini rimediati a fatica, la difficoltà di sviluppare e stampare: una lotta contro il tempo a rischio della vita, così per i visitatori che andavano alle sue mostre, mentre tutto si sgretolava, per condividere anche attraverso le immagini la comune sofferenza. Guardando quelle foto, si resta colpiti dalla maestria di Milo nel catturare i tanti dettagli che l’occhio nudo fatica a cogliere. Disperazione e pudore, tenerezza e atrocità, paura e rassegnazione entrano nelle inquadrature e compongono l’insieme, immortalando quello che è avvenuto in un solo istante. L’artista ha immagazzinato pagine di Storia per la sua gente e per noi, per aiutarci a “vedere” la nostra contemporaneità, la realtà bulimica del Male e la sua insaziabile ripetitività. I conflitti, separando le comunità, ne unificano le tragedie.
Non c’è mai la brutalità gratuita nei suoi scatti. La morte non sempre richiede pozze di sangue per essere rappresentata. E’ sufficiente un manichino scomposto dietro la vetrina perforata dai proiettili. E poi le croci sotto la neve o che proiettano le loro sinistre ombre sul viottolo del cimitero di Lav, dove c’è anche la tomba di suo padre, colpito da un cecchino. “La morte di mio padre ha rotto l’irrealtà; da allora la foto ha finito di essere un semplice strumento artistico per diventare un documento visivo sull’inferno di Sarajevo, la necessità di custodire le tracce della quotidianità dei suoi abitanti e restituire loro la fierezza calpestata”. Il fotografo stesso entra nella foto con la sua ombra scura che si staglia tra le strade desolate, per imprimere l’orma della sua testimonianza. Un drammatico autoritratto, una silhouette discreta sulla destra di uno sterrato, che si allunga in una visione prospettica verso le case e la via Titova, sede del CEDUS. I contrasti del bianconero, le luci fuse alle ombre proiettano il dolore nei nostri occhi: un cane è come spezzato in due, confuso col brecciolino; sull’asfalto le schegge di una granata si spargono a corona; il cadavere del giornalista di Radio Sarajevo, Zeljko Ruzicic, giace con le ginocchia ripiegate e la borsa di lavoro sul petto. Gli scheletri dei palazzi sventrati, i resti della biblioteca Nazionale, il tram ridotto a ferraglia contorta, incollata alle rotaie. Le rovine delle chiese, delle moschee che si stagliano in controluce, mostrandoci la loro magnificenza profanata e l’intreccio di culture, costruito nei secoli e disintegrato per sempre. Quindi, le madri con i figli stretti fra le braccia, ritratti di dolente bellezza caravaggesca. E i bambini, vittime assolute della guerra di ieri e di oggi. Guardano dai finestrini dei bus che li portano lontano dalla città assediata: giocano alla guerra con finte armi di plastica e di legno, fissano l’obiettivo con aria di sfida, si rifugiano fra le gambe dei padri, guardano il loro futuro negato oltre una fitta rete, rannicchiati su una bicicletta, la fronte aggrottata come vecchi.