Riflessione di Flavio Lotti nella rubrica del Fatto Quotidiano del lunedì, a cura di Michele Afferrante, “La parola da salvare” dedicata ieri alla parola “PACE”.
Articolo di: Flavio Lotti – Michele Afferrante
Avevo 17 anni la prima volta che ci ho provato e ancora non ho smesso d’interrogarmi. Cos’è questa pace che sta sulla bocca di tutti? Com’è possibile che ciascuno la intenda come vuole? Allora, dietro al banco di scuola, davanti a un tema libero, avevo tentato di scavare dentro a una parola che mi appariva carica di ipocrisia e inganni. Oggi mi interrogo sulla manipolazione e la manomissione che si continua a fare di una delle parole più semplici e più belle. Pace è una parola breve, di sole quattro lettere, una delle più facili da pronunciare. Eppure non ha mai potuto godere di una vera e propria definizione. Come ha giustamente osservato Norberto Bobbio, nella nostra cultura il termine definito è guerra. La pace è sempre stata definita unicamente come la sua negazione. Guerra è il termine forte. Pace è il termine debole. E per questo viene continuamente straziata. In questi giorni accade più di frequente solo perché la guerra ha accelerato il suo corso devastante ed è tornata a minacciare il nostro trantran. Chi non vuole oggi la pace? Tutti la vogliamo! Al punto tale che siamo pronti anche a fare la guerra. A chi minaccia i nostri interessi, agli stranieri, a chi ci sbarra la strada, a chi ci appare diverso … La vogliamo tutta per noi e non ce ne frega niente di quella degli altri.
Pace è una parola da salvare perché di pace abbiamo un disperato bisogno. Perché non possiamo vivere senza. Perché è un nostro diritto. Ma per salvarla dobbiamo fare la rivoluzione. Una rivoluzione culturale per liberarci della cultura della guerra di cui è impregnata la nostra vita, i nostri pensieri, il nostro linguaggio, i nostri comportamenti, la politica.
LA PACE PER SALVARSI ha bisogno di una definizione positiva e io ho imparato che alla sua base c’è la Dichiarazione universale dei diritti umani. Altro che assenza di guerra. La pace è il frutto maturo della giustizia e del pieno rispetto dei diritti umani. Non è solo un valore. E’ un diritto e, come tale, un obiettivo da perseguire nelle nostre città all’Onu, con gli strumenti della politica, del diritto, dell’educazione e della solidarietà. “Non basta parlare di pace. Uno ci deve credere. E non basta crederci. Uno ci deve lavorare.” diceva la filantropa Eleanor Roosevelt sessant’anni fa.
La pace è come l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo. Protestiamo quando l’aria è diventata irrespirabile, ci organizziamo quando l’acqua è diventata imbevibile, manifestiamo quando la guerra è già scoppiata. Ma così non serve a niente. La pace, come l’aria e l’acqua, è un “bene comune globale”: deve essere tutelata e salvaguardata nel tempo e nello spazio. Se vogliamo respirare dell’aria pulita, bere dell’acqua chiara e vivere in pace abbiamo bisogno di agire di conseguenza. In prima persona. Opporsi alla guerra è necessario, tanto più oggi che rischiamo la terza guerra mondiale. Ma non basta. Lo dico con Aldo Capitini: “la riduzione del fatto ‘guerra’ va accompagnata con la capacità di costruire la pace, di dare un sale ad essa, di riferirla ad un nuovo uomo, e nuova società, e nuova realtà.”
Fonte: Il Fatto Quotidiano
da perlapace.it