Mediaset contro il Capitale? Sembrerebbe di sì, se si osserva l’andamento della quotazione in borsa del titolo di un’azienda che non va molto bene e tuttavia è spesso in controtendenza nel settore dei media (e non solo) di piazza Affari.
La pressoché esclusiva fonte economica della principale emittente commerciale italiana – la pubblicità – è da tempo in caduta vertiginosa. Stiamo parlando di un calo costante dal 2009 in poi, con l’impennata del primo semestre del 2013 segnato da una discesa del 17,5% rispetto all’omologo periodo dell’anno precedente. E neppure si può dire, al netto di ogni altra considerazione, che la televisione del «biscione» abbia investito in strumenti innovativi o che sia un’avanguardia dell’era della rete. No. La programmazione ha pochissime impennate e i talk-show urlacchiati (poco costosi, come è noto) imperversano. Problemi per giornalisti, tecnici e addetti non mancano e l’atmosfera interna non parrrebbe certo idilliaca. Come è possibile, allora, che un gruppo – per sua stessa dichiarazione – in perdita abbia in borsa una capitalizzazione di 4miliardi di euro cui vanno aggiunti debiti per 1,7 md? Cioè, un’impresa in deficit vale nel mercato dei capitali 5,7 miliardi? Sarà. Il capitalismo è inesorabile solo quando licenzia o precarizza i lavoratori; diventa duro e accademico laddove si incontra nelle conferenze auto celebrative; è eterno secondo le mediocri teorie alla moda. Assume improvvisamente sembianze caritatevoli quando uno dei pezzi forti della costellazione è in difficoltà, ma rientra nei vincoli «interni» italiani, per riprendere il linguaggio usato nei simposi degli imprenditori. E sì, il vincolo «interno» si chiama conflitto di interessi, che si dispiega non solo quando il patron Berlusconi è al governo, bensì – in un modo o nell’altro – sempre. Anche quando l’ex cavaliere non siede a palazzo Chigi. E persino nella stagione della sua decadenza. Uno dei principali effetti collaterali del conflitto di interessi sta proprio qui: il mercato si piega di fronte ad un potere consolidatosi negli anni proprio in virtù della presenza pubblica del Capo. Basti ricordare la situazione finanziaria dell’epoca della «scesa in campo»: il quadro era grave e compromesso. I libri si stavano avviando verso il tribunale. O la memoria ci inganna? Qualcosa è accaduto nel profondo delle relazioni finanziarie e l’anomalia di oggi ha un sapore antico.
Difficilmente reggerebbe simile discrasia tra realtà materiale e rappresentazione nel mercato (libero?) se non vi fosse alle spalle il governo delle larghe intese: non è solo una coalizione, bensì una cultura intrigante e ben impiantata negli strati profondi di quest’Italia. Come la legge, anche il mercato non è uguale per tutti. Anzi. Che chiudano migliaia di aziende al mese è un problema dei loro proprietari e dei loro operai. Che decine e decine di emittenti locali siano alla canna del gas per un’orribile gestione della transizione alla stagione digitale è solo un problema tecnologico. Mediaset è intoccabile. E’ un santuario in cui persino il Capitalismo non può mettere piede. A proposito, le autorità competenti tacciono sempre su tale vicenda?
P.S. In queste ore potrebbe arrivare nelle redazioni il conclamato videomessaggio (uno, due?) di Berlusconi. E’ bene ricordare, sempre alle autorità competenti, che la libertà di espressione è sacra, ma la legge non è un optional. In questo caso la normativa che regola i confini entro cui può essere trasmesso un videomessaggio è il Testo Unico sulla radiodiffusione del 2005, peraltro firmato dall’ex ministro Gasparri. Ci si rifletta sul serio.
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