In Italia la politica delle larghe intese non ha mai avuto grande fortuna. La collaborazione fra i partiti del CLN non fu poco travagliata dando vita a due governi (Parri e De Gasperi) e giungendo al termine con la firma della Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Che fu comunque un risultato epocale, con un livello di contributi di tutti i partiti e con una solidità di impianto straordinaria. Tuttora. Poi ci fu l’inevitabile rottura con l’errore clamoroso (di Pietro Nenni soprattutto) di volere non soltanto il Fronte Popolare, ma addirittura la lista unica Pci-Psi che costò una cocente sconfitta e il massacro nelle preferenze dei candidati socialisti.
L’altro governo delle larghe intese, un monocolore dc retto dalla “non sfiducia”, invenzione tipicamente morotea, nacque appena prima del sequestro e dell’assassinio dello stesso Aldo Moro con un governo che, per la prima volta dopo il 1948, includeva nella maggioranza il Pci. Ma c’era stata una lunga preparazione e il varo, da parte di Berlinguer, del compromesso storico. Non durò molto neppure allora perché le elezioni politiche del 1979 registrarono uno smottamento nell’elettorato comunista e quindi il ritiro dell’appoggio. In ogni caso la dialettica politica, pur intensa, con un Psi che allora spesso risultava, specie alla base, “alternativista”, correva fra partiti ancora non sfibrati che avevano un raccordo forte con la società. Mentre il sindacato viveva storicamente, con la FLM, il suo momento unitario più alto.
Le larghe intese promosse dopo le ultime elezioni avevano poco o nulla di quella base (che pure non bastò a farle vivere): i due partiti di maggioranza, Pd e Pdl, vengono da anni di dura, netta contrapposizione, le loro basi sono ancor più dei vertici (se è possibile) alternative, il bipolarismo “muscolare” degli scorsi anni ha prodotto un sostanziale tripolarismo con l’ascesa di un movimento assai più forte, confuso e anti-parlamentare del vecchio Uomo Qualunque e comunque sin qui sordo a qualunque alleanza anche temporanea col Pd al fine di mandare all’opposizione, per via parlamentare, Berlusconi padre-padrone del centrodestra. Il sindacato conta assai meno della fine degli anni Settanta del ‘900 ed è fortemente diviso, con Uil e Cisl (allora sindacato di punta, figuriamoci, nella FLM) sostanzialmente subalterni a scelte moderata e a volte discriminatorie nei confronti della Cgil, in specie della Fiom.
Per queste e altre ragioni il governo Letta-Alfano sorto sulle larghe intese fra forze tanto disomogenee (in ogni senso) ha avuto una vita così precaria, nonostante il momento di emergenza attraversato dall’Italia, nonostante le esortazioni e gli incitamenti dell’Unione Europea, nonostante l’ossigeno di continuo inoculato dal presidente della Repubblica, dalle associazioni imprenditoriali e così via. Personalmente ho sempre creduto poco a questo nuovo governo di unità nazionale fra forze tanto diverse da risultare divaricate. Penso che non sarebbe stato un azzardo mandare Pier Luigi Bersani, vincitore delle elezioni alla Camera e quasi-vincitore della lotteria per il Senato, alle Camere. Probabilmente avrebbe trovato a Palazzo Madama i voti bastevoli per governare e, soprattutto, per cambiare, di corsa, il Porcellum. Non parliamo poi del “no” dei 101 grandi elettori del Pd alla candidatura di Romano Prodi al Quirinale. Errori su errori, purtroppo.
Inutile rifarsi al modello tedesco della “grosse koalition”. Sul governo incombevano i problemi giudiziari (numerosi, diversi e tutt’altro che esauriti, oltretutto) del fondatore e padrone del Pdl. I quali hanno prevalso, dopo alcuni mesi di fibrillazioni continue, sulle esigenze di stabilità, sia pure temporanea, assicurata, più nella teoria che nella pratica, dalle larghe intese, dal governo Letta-Alfano. Ora Berlusconi e i suoi fidi si affannano a sostenere che la rottura in atto, avvenuta col clamoroso ritiro immediato della delegazione di governo senza alcuna discussione interna, è stata causata dalla mancata riduzione delle tasse. Quando è chiarissimo che tale rottura è avvenuta sul montare di un violento ricatto, istericamente riproposto, sul terreno della legalità, sul terreno del rispetto della sentenza di condanna (di terzo grado) dallo stesso Silvio Berlusconi. In prima persona.
Anche oggi, domenica, il presidente Napolitano – dopo la nota durissima emessa pochi giorni fa contro la presa di posizione berlusconiana eversiva sullo inesistenza di uno Stato di diritto in Italia – ha confermato che, prima di sciogliere nuovamente le Camere senza aver riformato la legge elettorale, esplorerà altre soluzioni possibili. Reclamano nuove elezioni al più presto sia Berlusconi che Grillo. Ma entrambi sono destinati a subire (più il secondo del primo, ma anche il primo probabilmente) dissociazioni più o meno forti in sede parlamentare. Matura la possibilità, forse, di un governo fra il Pd, Sel e altre forze di centrosinistra che siano decise ad evitare un traumatico ritorno ad elezioni anticipate con la Borsa al ribasso, lo spread in rialzo, la legge di stabilità sballottata fra i marosi di una campagna elettorale di fuoco, e la piccola luce della possibile ripresa a rischio di spegnimento precoce. In questo momento anche Confindustria, Confcommercio, Confesercenti, Associazioni agricole devono far sentire la loro voce per una prospettiva di governo che sappia dare una risposta politica al ricatto personale, davvero folle e sciagurata, del settantasettenne padre-padrone della rinata (figurarsi) Forza Italia. Il nostro Paese non può tornare al 1994 come se nulla fosse successo nel ventennio decorso. La crisi deve essere portata al più presto in Parlamento per ridare ad esso il ruolo che da anni non ha più.