La violenza non è un passepartout (DL femminicidio II parte)

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Mentre sui giornali appaiono notizie di arresti in flagranza per violenza domestica grazie aldecreto legge sul femminicidio (n.93/2013), come se fosse spuntata la bacchetta magica in mano a uno Stato incapace di affrontare il problema, continuano le critiche argomentate verso il DL di ferragosto che però, guarda caso, non hanno uno spazio mediatico adeguato, almeno sui giornali nazionali a grande tiratura. Un meccanismo di speculazione più pericoloso e strumentale del silenzio, che tratta ormai il femminicidio come un passepartout che fa notizia e su cui anche chi non ha strumenti né metodo di approccio, può avventurarsi facendosi spazio nella giungla delle redazioni e dell’informazione (più o meno come fa il parlamento italiano e il governo attuale per mettersi una stelletta in petto).

Chi ne parla come di un fenomeno “risolto” in barba alla Convenzione di Istanbul ben lontana, come contenuti e intenti, da questo decreto. Chi, una volta imparato il nuovo termine, lo schiaffa in cronaca nera senza cognizione dicendo che forse si tratta di un femminicidio appena si parla di un cadavere femminile, e chi invece si sente in dovere, o in diritto, di intervenire sulla questione pensando di fare “del bene” e lasciando dietro di sé più danni che altro.

Ed è per questo che mi dispiace di aver letto qualche giorno fa proprio su un blog come la 27ora, che ha fatto un ottimo lavoro sulla violenza e da cui ci si sarebbe aspettati altro, l’intervista allo stalker “Claudio” fatta non da uno sprovveduto qualsiasi ma da una firma importante come quella di Beppe Servergnini (che non mi sembra si sia mai occupato di violenza né di diritti o discriminazioni sulle donne). Senza rendersene conto, l’intervista fa una scivolata implacabile ripercorrendo i luoghi comuni più pericolosi e più frequenti sulla violenza contro le donne, luoghi comuni che ancora troppo spesso riecheggiano nelle aule di tribunale e si ritrovano anche scritti su sentenze. E’ quella che viene chiamata rivittimizzazione, quell’arma affilatissima che proviene dal pregiudizio e dalla illusione che basta essere “brave persone” o “bravi professionisti”, per essere oggettivi e bilanciati, mentre la cultura millenaria patriarcale fa il suo lavoro nel profondo. Trattare le donne come se fossero vittime indifese da proteggere, come fossero perenni inadeguate, mettere sullo stesso piano la violenza maschile con la reazione  femminile di fronte a una pressione psicologica – che più passa il tempo e più degenera in violenza – ma soprattutto dare voce all’autore della violenza senza né dotarsi di strumenti di approccio e analisi su questo, e senza dare la possibilità a chi ha subito quella violenza di raccontare quello che lei ha vissuto, può essere considerata causa di una rivittimizzazione in questo caso mediatica. Un nodo che ha tenuto ben lontani i giornalisti da molti centri antiviolenza, che per molto tempo si sono rifiutati di dare in pasto le storie delle donne come se fosse materiale sensazionalistico, anche perché consapevoli della scarsa preparazione dei giornalisti stessi su un tema così delicato: un gap, tra la realtà della violenza e l’informazione che se ne dava, che oggi stiamo cercando faticosamente di riempire e su cui non vorremmo tornare indietro. Dire che lui è entrato in casa con l’accetta ma che lei, durante una lite, aveva preso un coltello in mano. Dare la sensazione che l’uomo è un poveretto respinto da una donna che giocava coi suoi sentimenti di uomo ferito, senza chiamare quel tipo di situazione col suo vero nome, cioè violenza psicologica (così come è riconosciuta dalla letteratura internazionale e anche dalla Convenzione di Istanbul), è molto più pericoloso di quanto si possa pensare. Perché quello che è importante non è soltanto il racconto dei fatti, ma l’imparare a raccontarli perché in un contesto culturale così discriminatorio per le donne, il messaggio che passa può essere devastante. Se chi scrive non se ne rende conto, non per colpa sua o perché maschilista, ma perché il terreno culturale su cui si muove è questo e investe tutt*, quello che culturalmente passa – e che è la bomba H nei tribunali, nelle caserme, e anche in alcune perizie psicologiche e nella mediazione di certi casi – è l’idea che in fondo la violenza è un ingrediente dei rapporti intimi. Quello che non va, e che andrebbe investigato a fondo, è che se si confonde la violenza psicologica (ma anche fisica o sessuale nei rapporti d’intimità), con una semplice conflittualità della relazione, la conseguenza che ne deriva ricade sulla vita e l’incolumità delle donne stesse. E’ per questa convinzione culturale ormai radicata dei rapporti sbilanciati tra i sessi, che nei tribunali si consumano le tragedie di donne non credute fino in fondo, messe sullo stesso piano dell’autore della violenza che loro stesse hanno vissuto, e quindirivittimizzate.

Se il problema è strutturale, l’informazione e la narrazione mediatica di questa violenza, diventa uno dei fattori principali per il cambiamento culturale dove le donne non possono essere dipinte sempre allo stesso modo: o vittime o provocatrici (che ricalca il o madonne o puttane). E se davvero si vogliono “aiutare” gli uomini ma non si hanno gli strumenti per addentrarsi in questo mondo “sconosciuto”, non si intervista un autore di violenza così, ma chi lavora con questi uomini, chi sa dove andare a cercare, chi conosce i punti critici di una certa complessità e sa cosa domandare e come farlo. Ci sono associazioni, come Be Free e Maschile Plurale, che fanno ottimi piani di recupero in carcere con gli stupratori e con grandi risultati, perché allora non ascoltare loro o farsi consigliare? o semplicemente dare questa incombenza a un giornalista che su questo mastica tutti i giorni?

La tradizione vespiana ci insegna quanto sia controproducente ridurre le donne ad argomento da salotto, dove si presuppone di fare opinione con chiunque e sulla qualsiasi. Per queste ragioni, e non solo, non basta essere “sensibili” al femminicidio ma bisogna conoscerlo a fondo, bisogna essere preparati, studiare, ed è fondamentale – come insiste da tempo la società civile – la formazione per giudici, forze dell’ordine, medici, avvocati, psicologi, assistenti sociali, ma anche per i giornalist* (almeno quelli che se ne vogliano occupare). Chi metterebbe un giornalista che fa sport al desk di politica interna? quale direttore assumerebbe per fare economia un collega che fino a ieri faceva cinema? e perché questo non vale quando si parla di diritti, discriminazioni e violenza di genere? Forse perché la cultura che vede le “cose di donne” come un terreno di serie B è introiettata a tutti i livelli? Quindi, se non basta essere un eccellente giornalista come Servergnini per mettere mano a una così tanto delicata questione, ancor meno accettabile è un governo che ha redatto un decreto sul femminicidio insufficiente, senza tener conto della complessità del fenomeno e tralasciando le consultazioni con quella società civile indipendente, assai più competente in materia di questo governo e delle due camere messe insieme.

Per chiarire le ragioni per cui questo decreto legge sul femminicidio cambierà un millesimo di quello che invece dovrebbe cambiare, e perché un approccio integrato a 360 gradi è fondamentale, riporto l’articolo di Maria (Milli) Virgilio, avvocata e docente di diritto penale comparato a giurisprudenza, e responsabile scientifica del  progetto Lexop – Gli operatori della legge tutti insieme per le donne vittime di violenza nelle relazioni di intimità.

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“Decreto legge n.93/2013. Una prima lettura”

di Maria (Milli) Virgilio, avvocata penalista e docente

(da zeroviolenza.it e www.women.it)

“Dobbiamo rassegnarci e accontentarci? Il Governo Letta-Alfano aveva promesso di mettere nella sua agenda politica la violenza contro le donne. E, a suo modo, lo ha fatto. Modo e contenuti non ci soddisfano. Aspettavamo una legge organica e finanziata, che affrontasse tutti gli aspetti civili, amministrativi, penali, dalla educazione nelle scuole alla formazione degli operatori, dall’osservatorio di monitoraggio ai centri antiviolenza. Invece abbiamo avuto norme solo penali all’interno di un decreto legge “pacchetto” il cui testo abbiamo avuto a disposizione solo alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, cioè solo dopo la sua entrata in vigore, a cose fatte. Noi avremmo preferito, invece di esser poste dinanzi al fatto compiuto, discuterne con modalità di elementare partecipazione democratica (ma questa ormai è vuota parola, a tutti i livelli di potere; eppure dovrebbe essere un dovere per i governanti).

Ancora una volta il tema che ci sta a cuore è all’interno di un pacchetto sicurezza di contenuto eterogeneo (i decreti dovrebbero essere a contenuto omogeneo: L. n. 400/1988) e dunque non è stato ritenuto degno di autonoma trattazione. E’ così ormai da parecchi anni. Inscindibile binomio: decreti-legge e sicurezza (il titolo del decreto dice solo “sicurezza” , ma poi preambolo e articolato chiariscono che è alla sicurezza pubblica e di polizia che il Governo si riferisce). Questa volta la scelta del decreto provvisorio con forza di legge di iniziativa governativa – che la Costituzione ammette solo “in casi straordinari di necessità e d’urgenza” – è giustificata ribaltando il dato oggettivo delle elaborazioni e azioni politiche delle donne che si sono attivate (spesso coinvolgendo le istituzioni) per ovviare alla cronica mancanza di dati ufficiali sulla violenza maschile contro le donne e per portare il tema alla attenzione pubblica (sforzo purtroppo stravolto dalla ribalta mediatica, tutta concentrata sui casi di assassini). Infatti il Governo – per giustificare le circostanze straordinarie di necessità e urgenza – non porta dati, ma si limita a enunciare il “susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne”. Ed è da questo che trae un “conseguente” “allarme sociale”, che – a sua volta – rende necessario “inasprire per finalità dissuasive, il trattamento punitivo per gli autori”. E’ un ribaltamento bello e buono. Curioso – e contraddittorio – che una indimostrata asserzione statistica e criminologica (un vago e ascientifico “susseguirsi di eventi”) costituisca l’unico presupposto di legittimità costituzionale (straordinaria necessità e urgenza) di un decreto legge che nel suo dettato contiene poi sia l’assegnazione al Ministro dell’interno del compito di elaborare annualmente ( art 3) “un’analisi criminologica della violenza di genere” e sia la previsione di una raccolta strutturata dei dati del fenomeno inserita nel Piano straordinario (art. 5). Insomma il presupposto del decreto ne costituisce anche l’oggetto, che deve ancora essere dimostrato.

Quanto all’arresto obbligatorio in flagranza per maltrattamenti e atti persecutori, ne viene posticipata la vigenza al momento della conversione in legge e questo dimostra che la misura non era poi tanto urgente. Insomma ce ne sarebbe a sufficienza per contestare dinanzi alla Corte costituzionale il ricorso allo strumento decreto legge; ma – costata la prassi invalsa e alla luce della  giurisprudenza della Corte sul punto – trattasi di una strategia impervia. Non per questo la protesta e la critica sul punto devono essere taciute.

Sembra dunque non restare altro che lo spazio – oggi così risicato – delle modifiche e dei ritocchi in parlamento, da parte delle due camere (sia chiaro: lavori in commissione e non in aula; abuso dello strumento della fiducia). Quanto al contenuto, le ombre sono più delle luci. Innanzitutto le norme contro la violenza di genere di effettivo vigore sono tutte di esclusivo carattere penale. Infatti il Piano d’azione straordinario è solo annunciato ed è a costo zero (“senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”). Il vocabolario usato è oscillante e  incerto: violenza di genere; poi violenza sessuale e di genere; e ancora violenza di genere e stalking (come se violenza sessuale e stalking non costituissero violenza di genere contro le donne) . Quanto alla nozione di violenza domestica riprende sì la definizione di Istanbul, ma caricata di un ulteriore requisito fortemente restrittivo: gli atti “non episodici”.

Si aggiunga il riferimento – nella comunicazione governativa- al femminicidio (diffusamente ripreso: decreto contro il femminicidio?) che risulta un ossequio mediatico e di immagine, visto che nessuna norma si riferisce agli assassini di donne da parte di uomini  con cui sono in relazione di intimità o prossimità. A meno di non voler sostenere che qualunque modifica in materia di violenza  della legge penale (sia legge sostanziale che processuale) svolga di per sé funzione di prevenzione dei c.d. femicidi (ringraziamo per queste confusioni e per questi effetti boomerang chi continua a premere indiscriminatamente e acriticamente sul pedale del femminicidio e ad attribuirgli un significato giuridico). Non sono certo riconducibili a una funzione di prevenzione le norme più scopertamente repressive, cioè gli aumenti di pena e le aggravanti appositamente previste per “inasprire” il trattamento degli autori (tra cui quello per la violenza cd. assistita, inflitta ai minori presenti alle violenze, complesso problema che richiede ben altre coordinate azioni non solo di diritto penale). Infatti è ormai storicamente e scientificamente assodato che gli inasprimenti di pena non realizzano alcuna funzione deterrente (ancor più in tema di violenza maschile contro le donne), perché non scalfiscono l’aspettativa e il senso di impunità degli autori .

L’attenzione va piuttosto ad altri aggiustamenti.

La più significativa ci pare quella della “costante informazione in ordine allo svolgimento dei relativi procedimenti penali”. Ottimo proposito! Ma perché prevederla riduttivamente solo per i maltrattamenti contro familiari e conviventi? E perché solo per alcune delle misure cautelari, e non per la custodia in carcere? E perché non hanno inserito una ulteriore apposita  norma che imponga alla polizia giudiziaria di indicare alla donna che ha denunciato (o querelato) un riferimento personale a fine di reperibilità telefonica per i casi a rischio? La nuova misura attribuita alla polizia giudiziaria dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare (384 bis CPP) è pur sempre impostata come un potere di polizia che può essere esercitato d’ufficio, dunque anche contro la volontà  della donna. E la previa autorizzazione del pubblico ministero (come? nelle vie brevi, per telefono?) deve essere precisata. Le varie norme su arresto obbligatorio in flagranza (che entreranno in vigore solo dopo il vaglio del Parlamento) intervengono rendendo obbligatorio quello che già era previsto, ma in modo facoltativo. Il superamento della discrezionalità non affronta il problema di fondo, che è quello della formazione professionale delle forze di polizia (e degli operatori in generale).

Bene gli ampliamenti di garanzia su incidente probatorio (ma valgono solo per maltrattamenti). Bene anche l’audizione con modalità protette in dibattimento, ora ampliate. Bene ancora la priorità assoluta dei processi (ma di fatto – vista la crisi della giustizia – non può che essere relativa) e il patrocinio a spese dello stato. Ma sia chiaro: sono tutte norme di “tutela”, per una vittima vulnerabile, o comunque ritenuta per legge soggetto “debole”, e comunque sono norme processuali che si riferiscono a casi in cui il fatto violento è già stato portato a emersione da denuncia o querela.

Un ulteriore incremento del potere di polizia giudiziaria (soprattutto dei posti di polizia collocati nei pronto soccorso ospedalieri) è costituito dalla “misura di prevenzione per condotte di violenza domestica” (art.3). E’ ricalcata sul modello dell’ammonimento questorile per lo stalking (ove l’istanza della donna doveva precedere la querela). Questa invece vale solo per gli episodi di lesioni personali (582, 2 comma, cp) e – perché mai? – è applicabile  “anche in assenza di querela”. Ineffettivo risulta il rilascio del  permesso di soggiorno agli “stranieri vittime “ (genere?) di violenza domestica. E’ una estensione della speciale misura già prevista dalla normativa sull’immigrazione (art 18 della cd Turco-Napolitano, poi Bossi-Fini), ma non è accompagnata dalla previsione di interventi sociali di sostegno ed appoggio.

Complessivamente la filosofia del decreto comporta una riduzione della autodeterminazione della donna a vantaggio di una logica di irrigidimento e di preteso efficientismo ed economia delle attività di polizia giudiziaria e processuali. La opzione governativa è che la riluttanza della donne a denunciare e querelare e  – ancor più – la loro eventuale titubanza a proseguire nel conflitto giudiziario con le conseguenti loro rinunce e ritrattazioni  non debba essere affrontata e trattata con azioni di sostegno alle donne stesse e col rispetto dei loro “tempi”, bensì forzandole con una sorta di decisionismo istituzionale intollerante, che non ammette tentennamenti e non sopporta – diciamolo –  perdite di tempo e di energia lavorativa per gli operatori della legge, che non accettano indagini e processi che non diano garanzie di realizzare senza indugi la finalità repressiva.

Tale priorità delle logiche istituzionali repressive rispetto alla libertà femminile emerge in più parti (vedi art 3 “anche in assenza di querela”).  Ma la spia  più significativa è quella –inaccettabile –  della irrevocabilità ora sancita per la querela di stalking.

E’ evidentemente ripresa dalla scelta  – unica nell’ordinamento penale – prevista sin dal 1930 per la violenza sessuale. Ma non si confonda: per la violenza sessuale la effettiva regola è ormai dal 1996 quella della procedibilità è d’ufficio ( la procedibilità su querela è residuale e limitata a poche ipotesi). Invece lo stalking è perseguibile  – di regola, tranne pochissime eccezioni – a querela. Pertanto la innovazione della irrevocabilità per il delitto di atti persecutori rischia di essere controproducente, perché introduce un elemento di rigidità in una fattispecie che deve sinora la sua fortuna proprio alla sua duttilità e leggerezza (censurabili giuridicamente e costituzionalmente per indeterminatezza – ma questo è un altro discorso).  Ci riferiamo al numero di querele presentate: secondo i recenti dati pubblicizzati dal Ministero dell’interno sono 38.142 dall’entrata in vigore della legge 38/2009; nel 73% dei casi depositate da donne (occorre tuttavia considerare che molti fascicoli aperti vengono poi archiviati: tra il 15 e il 30% per remissione di querela e tra il 30 e il 60% per infondatezza o mancanza degli elementi costitutivi previsti dalla legge. Così risulta dalle valutazioni dei pubblici ministeri raccolte nel volume da me curato “Stalking nelle relazioni di intimità” , IUS 17, n.2/2012, Bononia University Press, Bologna ).

Siamo certe che le donne continueranno a querelare anche quando sapranno che il susseguente procedimento penale non sarà più nella loro disponibilità e non saranno più libere di ritirarsi? Sarà così inevitabilmente frenato questo tipo di emersione (pubblica) di fatti violenti, tanto più che le donne (e i media) nominano e classificano come stalking (che è violenza psicologica) anche gli  altri fatti ben più lesivi, che quasi sempre lo accompagnano, perpetrati con violenza fisica o sessuale. Si tratta insomma di una limitazione della autonomia/autodeterminazione della donna che ha subito violenza. Ci siamo forse dimenticate del dibattito ventennale che ha preceduto la legge del 1996 contro la violenza sessuale, quando la discussione fu incentrata sulla procedibilità d’ufficio o a querela?

Che fare?

Lavorare con giuriste/i, avvocate/i e magistrate/i per contrastare l’articolato tutto (compreso No TAV e dissenso sociale; non possiamo considerare solo i primi 5 articoli, ignorando il resto) e sollevare questioni di legittimità costituzionale sulla legiferazione per decreto? E’ seriamente praticabile? Lavorare con le/i  parlamentari per migliorare e emendare i ritocchi positivi e per eliminare i punti inaccettabili? Siamo in grado di riuscire a ribaltare la logica repressiva di fondo che ha ispirato il decreto, che non solo sulla violenza contro le donne, ma in tutto il suo articolato ha puntato sull’incremento dei poteri di polizia? Possiamo seriamente considerare questo decreto esclusivamente penalistico come solo un primo piccolo passo? Siamo davvero fiduciose che poi si lavorerà insieme (collettivamente e democraticamente – non solo i centri antiviolenza e le associazioni, ma anche le donne delle istituzioni e le singole) ad una legge organica e a elaborare un  Piano nazionale congruamente finanziato. Ma come garantirselo da ora? Quale impegno in tal senso esigere adesso da parlamentari e istituzioni? Saranno capaci le donne di trovare luoghi e modi per esprimere simile forza a favore della libertà femminile (e di tutti)?”.

http://blog.ilmanifesto.it/antiviolenza/2013/09/02/la-violenza-non-e-un-passepartout-dl-femminicidio-ii-parte/


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