Una notizia su tutte. “Obama: attaccherò con il sì del congresso”, Corriere. “Obama chiede l’OK del Congresso”, La Stampa. “Attacco, ma con il sì dell’America”, Repubblica. Troverete analisi e commenti di Stille, Tramballi, Romano, Ferrari e, su Repubblica, il testo dell’intervento di Obama.
Credo che il Presidente degli Statu Uniti abbia agito in stato di necessità, ma lo stesso abbia mostrato del coraggio. Il no all’intervento in Siria del Parlamento britannico gli aveva dato la misura di quanto l’opinione pubblica occidentale non creda più alla guerra americana come soluzione alle crisi. Dopo 12 anni di operazioni militari, agguati subiti, crimini commessi, da Abu Ghraib al waterboarding, l’Afganistan sta per essere riconsegnato ai Taleban. L’Iraq è stato messo nelle mani di governanti Sciiti, amici dell’Iran, cioè di quello che viene rappresentato come il principale avversario di Israele e degli Stati Uniti. E’ andata così. Perché, allora, un nuovo intervento, a che pro un ulteriore strappo con la Russia, con la Cina e con l’Onu?
Ma l’America ha il suo orgoglio. Da Kennedy, a Johnson, ai Bush padre e figlio, non ha mai osato spiegare le sue guerre con interessi di bottega. Salvare il Vietnam dal comunismo, l’Afganistan da Osama, l’Iraq da un dittatore che aveva già adoperato i gas e avrebbe potuto usarli ancora. L’ingerenza democratica e umanitaria, fondata sul mito di una guerra mondiale combattuta per salvare l’Europa dal nazismo, è la principale giustificazione ideologica del ruolo degli States nel mondo. E, ora, come ignorare 90mila morti in Siria, milioni di profughi e quei bambini morti per via del Sarin? Obama deve rispondere. Sa, oggi più che mai, di essere il curatore fallimentare della ex unica super potenza, ma per svolgere con onore tale ruolo, deve saper prendere i suoi rischi. Il congresso non si riunirà prima del 9 settembre, la Russia e Cina proveranno a convincere il mondo che gli americani non hanno in mano nessuna pistola fumante, il regime siriano insulterà, minaccerà e intanto farà girare notizie dei figli di Assad che imparano russo e cinese e immagini della moglie che fa la crocerossina.
Sarà dura, ma Barak, come ogni bravo americano democratico, sa che il potere ha bisogno di giustificazioni, che una super potenza, pure al declino, deve darsi una missione. Assad ha infranto la linea rossa, ha usato contro il suo popolo armi che furono vietate già nel 1925. Assad deve pagare. Per Italia, per Francia, per Gran Bretagna, Germania si ripresenta, forse, l’occasione di stabilire un precedente, di provare a contare qualcosa. Di imporre un obiettivo : l’apertura di una trattativa tra regime e ribelli, il ritiro delle milizie da Aleppo e consegnare la città a operatori di pace, consegnare negli hangar aerei ed elicotteri militari di Assad. Chissà.
Oggi celebro la vittoria di Pannella. Napolitano non ha avuto il coraggio di nominarlo senatore a vita e Marco è riuscito, per un giorno, dove il Presidente ha finora fallito, ha messo in riga Silvio Berlusconi. Il quale, in piazza Argentina, ha firmato i referendum radicali, quelli sulla giustizia e quelli contro l’ergastolo, la Bossi Fini, per la depenalizzazione delle droghe leggere. “Una firma salva Italia”, il Giornale fa di necessità virtù. “Il pregiudicato si consegna a Pannella”, dice Il Fatto tra le righe. Pannella che, nel colloquio a quattr’occhi avrà proposto al Caimano di lasciar perdere falchi e colombe, di accettare gli arresti domiciliari o di lavorare con “Nessuno tocchi Caino”. Un prigioniero “libero” perché, alla fine del suo percorso, dei suoi successi e dei suoi errori, ha saputo abbracciare una missione. Il guaio è che Berlusconi tiene famiglia e si farà ancora del male, facendone ancora all’Italia.
Ieri mi sono piovuti addosso molti tweet a proposito di quella frase detta da Renzi e alla quale ho dato credito: “se fossi segretario, per prima cosa rottamerei le correnti”. “Non lo farà, costruirà una sua maxi corrente con il peggio del Pd” è la certezza di una pancia della sinistra. Noto soltanto che questo impegno del sindaco di Firenze viene dopo quelli assunti da Barca, da Civati, da Cuperlo. Dunque la questione è posta prima e anche “da sinistra”. Ma cosa sono queste correnti e perché io preferisco chiamarle cordate?
Il Pd nasce dalla fusione dei due partiti post comunista e post democristiano. I Ds, a parte una pattuglia “migliorista”, tifavano per Veltroni o per D’Alema, ma non avevano correnti (parola vietata ai tempi del centralismo staliniano). Contavano, però, su un apparato di funzionari e amministratori, attraversato da interessi localistici e infiltrato da tempo da gruppi di pressione e da logiche corporative. Gli ex Margherita erano tenuti insieme dalla necessità di non arrendersi a questo apparato e dalla presunzione di portare un valore aggiunto, e cioè di poter interpretare meglio le ragioni del centro moderato.
Veltroni segretario ebbe un’investitura plebiscitaria, provò, con il partito a vocazione maggioritaria, di imporre la sua legge, si schiantò contro la macchina da guerra messa su da Berlusconi nel 2008 e non ebbe, poi, il coraggio di rivedere lo schema, di costruire un vero partito democratico, aperto a Ichino e al comunista Ferrero, con molte voci e altrettante autonomie, ma capace di riunirsi su pochi grandi temi e in campagna elettorale. Dimessosi Walter, le correnti si trasformano a tutto tondo in cordate, gruppi di pressioni, compagnie di ventura che sostengono un capo e che a lui chiedono protezione. Era il tempo in cui all’ospite PDL che ripeteva il verbo del capo, si contrapponeva al Tg1 un “democratico” più interessato a posizionarsi nella battaglia interna che a sostenere le ragioni (quali?) del suo partito. Un anno fa, grazie alla novità Renzi e al suo coraggio nell’accettarne la sfida, Bersani è riuscito a mettere in ombra le cordate, a gestire direttamente i funzionari di partito, a non candidare qualche dirigente illustre. Ma lo ha fatto da amministratore delegato, in qualche misura nel nome delle correnti e, certo, con la volontà di difendere l’apparato del partito. Una campagna elettorale con intorno troppi yesman, la sconfitta, il rifiuto di Napolitano di dargli l’incarico, il disastro delle elezioni presidenziali, quando ha sbagliato decidendo non alla luce del sole, con senatori e deputati, ma in qualche camera di compensazione, con gli ex capi cordata.
Come finirla? Costringendo il gruppone ex bersaniano a “dire” politica, a scegliere. Siete per le larghe intese? Con Letta a tutti i costi perché la sinistra è immatura e Grillo un demagogo populista? State con Ichino o con Landini? (Con la Cgil,perché siamo di sinistra, ma con le banche, le associazioni degli industriali e dei commercianti, perché siamo riformisti, non è una risposta). E costringendo gli ex DC a sciogliersi nell’area filo governativa o a recuperare qualche nobile ragione di Moro e del cattolicesimo democratico e liberale.
Renzi ha un’occasione. Può e deve aprire un confronto con tutti quelli che mettono in campo idee per il futuro, con Barca, Civati, Cuperlo, persino con un eretico come me. E deve, invece, cacciare i mercanti dal tempio. Deve dire no a funzionari e deputati, senatori e amministratori locali che rappresentano interessi locali e lobbies. Con il mondo degli interessi, beninteso, un partito che vuol governare deve fare i conti, ma non può accettare che la rappresentanza di tali richieste venga usurpata da capi bastone e notabili, con tessera e pacchetti di voti da giocarsi alle primarie.