Nel salottino accanto alla sala Zuccari di palazzo Giustiniani, le prime ad arrivare ieri mattina per il convegno «Convenzione di Istanbul e Media» sono Barbara Stefanelli e Luisa Pronzato, del Corsera. In sala c’è a vicepresidente del senato, Valeria Fedeli, che ha organizzato l’evento. Subito dopo arrivano la presidente della Rai, Tarantola, la presidente della camera, Boldrini, Giannini e Calabresi, di Repubblica e La Stampa, e infine Sara Varetto di SkyTg24 con il presidente del senato, Pietro Grasso.
Caffè, acqua, convenevoli, e ci mettiamo a sedere al tavolo pronti a sviscerare il peggio, o il meglio, sulla narrazione del femminicidio e gli stereotipi nei media. Dopo i saluti di Grasso e di Boldrini la sala è già calda, perché le due alte cariche dello stato introducono il tema prendendolo di petto: Grasso dice che «la parità trai generi deve essere perseguita oltre la legge, oltre le regole, oltre le quote», ma è Laura Boldrini che lancia alla platea un perfetto “dritto”, parlando di cambiamento culturale e del linguaggio a partire da sé: «Se una giudice chiede di essere chiamata la giudice, una ministra la ministra, perché non si fa? Perché forse siamo comete che non lasceranno il segno? Se chiamassi il direttore Calabresi, direttrice, non credo sarebbe contento, eppure io vengo ogni giorno chiamata signor presidente».
Sulla stessa lunghezza d’onda sono gli interventi di altre due donne autorevoli: Fedeli parla dell’articolo 17 della Convenzione di Istanbul che «richiama all’impegno dei media sulla violenza contro le donne», ribadendo che per avere un reale cambiamento questa Convenzione «bisogna conoscerla, leggerla, saperla»; mentre la presidente Rai si lancia in un discorso ricco di dati, mettendo sul piatto il lavoro, posti apicali d’azienda, stereotipi, fino a dichiarare quello che potrebbe essere uno slogan: «Via gli stereotipi, anche a scapito dello share».
Poi arrivano il direttore della Stampa e il vice di Repubblica, e il tavolo prende un’altra piega. Calabresi, si avventura nel paragone tra le donne che vivono violenza e le vittime di terrorismo, insistendo sul dare voce a chi non l’ha e su fatto che «emergenza sul femminicidio significa emergenza nel cambiare la situazione», anche se poi «in Finlandia muoiono più donne che in Italia»; e Giannini riprende l’ottimo articolo di Adriano Sofri sulla minimizzazione della violenza, pubblicato dal suo giornale, ma cita anche «l’amore malato che poi diventa amore criminale, una bellissima trasmissione televisiva», senza forse sapere che è proprio quel tipo di narrazione, che insiste su particolari anche morbosi, a essere messa in discussione a quel tavolo.
Ma sono ancora le donne a riportare la palla al centro: Sarah Varetto insiste sui ruoli decisionali, e la vice del Corsera, Barbara Stefanelli, propone 10 punti pratici sulla narrazione della violenza, un bell’input fatto anche grazie all’immenso lavoro della 27esima ora. Un’occasione che prendo al volo per concludere gli interventi del tavolo con diversi punti: sul fatto che il femmincidio è la violenza che una donna può subire nell’arco di una vita fino alla sua uccisione – e non l’atto criminoso in sé – e che quindi se l’80% della violenza in Italia è domestica, non ci stiamo inventando niente; che se vogliamo davvero cambiare la cultura, i nodi sono la scuola e i media, ma soprattutto l’informazione di stampa, tv e web che se si pone come oggettiva e che incide sull’opinione pubblica; e infine che esiste una vittimizzazione secondaria anche nei media, in quanto una narrazione stereotipata ha un effetto devastante e diretto in quelle aule di tribunale e in quelle caserme in cui le donne non sono ancora oggi pienamente credute.
Il modo per uscirne? Immettere nel tessuto vivo dei giornali, al di là di blog e rubriche, giornalisti e giornaliste formati sulla materia, non come jolly occasionali ma in posti precisi e anche di responsabilità. Una corretta narrazione del femminicidio, non può passare per una certa “sensibilità” al tema: un direttore metterebbe qualcuno che fa sport a fare economia perché è “sensibile” alla materia? Non credo. E su questo gli uomini, che sono la maggioranza dei “capi” nelle redazioni italiane, ci dovrebbero ascoltare.