Bisognerebbe essere ciechi e sordi per non capire oggi, a distanza di ventuno anni da quei fatti, che intorno alle stragi del 1992, alla morte di Falcone e Borsellino, si è giocata allora (ma l’ombra si proietta – come quasi sempre succede nelle cose italiane – anche sull’oggi) una partita importante e che la partecipazione di altre forze accanto alle “mafie” italiane non è l’idea balzana di qualche investigatore, o di storici dietrologi, ma emerge ogni giorno, verrebbe da dire, di fronte al comportamento di pezzi dello Stato, oltre che dei “media” di fronte a quegli avvenimenti.
Uno degli ultimi episodi ci riporta ora, grazie al quotidiano diretto da Ezio Mauro, alla verità tutta parziale e ritrattata in giudizio del pentito Vincenzo Scarantino che, arrestato tre anni dopo la strage di via d’Amelio, decide, in un primo tempo, di confessare di aver rubato l’auto inbottita di esplosivo ferma in Via D’Amelio per cui erano morti il giudice Borsellino e la sua scorta, quindi ritratta la confessione ma, nel 1995, (si apprende oggi) la procura di Caltanissetta ordina di distruggere la confessione dell’uomo arrestato e di un’intervista televisiva, data al canale televisivo berlusconiano di Studio Aperto, in cui raccontava di essere stato torturato a lungo nel carcere di Pianosa. Nel primo processo Borsellino, Scarantino viene condannato a 18 anni di carcere e con l’ergastolo per i complici indicati nella confessione, poi ritrattata. Come è noto, è stato il pentimento successivo di Gaspare Spatuzza a mettere in dubbio i risultati del processo e a convincere i magistrati a mettere in piedi un secondo e, successivamente, un terzo e poi quarto processo tuttora in corso per la strage di via d’Amelio e la morte del procuratore Borsellino.
Ma, nel frattempo, la confessione e l’intervista di Scarantino, distrutte nel ’95, erano del tutto sparite mediaticamente dalla scena delle stragi di cui ancora oggi studiosi e giornalisti cercano di comprendere la verità. Così è capitato soltanto dieci giorni fa a un giornalista calabrese di essere indagato e perquisito per aver riportato i verbali di una riunione della procura nazionale antimafia e agli studiosi di quel periodo e del fenomeno mafioso di venire a sapere oggi, con quasi vent’anni di ritardo, che Scarantino, nell’intervista del 27 luglio 1995 a Studio Aperto distrutta per ordine della procura di Caltanissetta (ma, a quanto apprendiamo da Repubblica una copia è rimasta, grazie a uno dei tecnici televisivi di allora), fece anche il nome di un poliziotto come responsabile della grande montatura che venne creata allora sulla strage.
E il nome è quello del dottor La Barbera oggi scomparso, del quale qualche mese fa è stato scoperto il rapporto, a lungo negato, con l’associazione mafiosa siciliana.
Ma proprio questo particolare di un’intervista, peraltro mai andata in onda e a lungo completamente dimenticata, fornisce una prova ulteriore e definitiva sulla presenza di altre forze nell’agguato mortale contro il giudice siciliano. E una simile presenza si spiega anche nella misura in cui nel biennio 92-93, come risulta da molte altre circostanze, era in pieno svolgimento la sotterranea, lunga trattativa tra mafia e Stato. Altro tema che suscita ancora oggi perquisizioni e indagini ma che tra qualche tempo dovrebbe finalmente arrivare a una prima sentenza della magistratura proprio a Palermo.