di Rino Giacalone
C’è un processo in corso in Sicilia, a Palermo. Imputato un politico, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del senatore trapanese, Antonio D’Ali’.
Banchiere trapanese, classe 1951, senatore dal 1994, sottosegretario all’Interno dal 2001 al 2005, presidente della commissione Ambiente a Palazzo Madama nella scorsa legislatura, oggi vice presidente dei senatori del Pdl, capogruppo del Pdl in commissione Finanze, rappresentante del Parlamento Italiano presso l’associazione parlamentare euro mediterranea e presidente del consorzio universitario della provincia di Trapani, è l’ennesimo politico che in Sicilia incorre in questa accusa.
Notoriamente ha intrattenuto rapporti con il clan mafioso del Belice, con i Messina Denaro, con don Ciccio prima e con il figlio di questi dopo, il superlatitante Matteo Messina Denaro.
Sono stati suoi campieri, secondo l’accusa sono stati una sorta di “compagni di merende”, assieme, in occasione di campagne per la vendemmia nei suoi feudi belicini di Zangara, pare, anzi senza pare, più volte D’Alì è stato in loro compagnia e in compagnia nel tempo di tutta una serie di soggetti che via via però, nel tempo, sono finiti nella rete della giustizia antimafia.
D’Alì con i Messina Denaro avrebbe anche compiuto una fittizia vendita di un terreno servita anche a compiere un riciclaggio da 300 milioni di vecchie lire, quando negli anni 80 quei 300 milioni erano certamente una bella cifra, magari utili a costruire quella Castelvetrano 2 che i Messina Denaro pensavano di fare seguendo l’esempio di quello che Berlusconi, che a loro pare non fosse del tutto sconosciuto all’epoca, stava facendo in Lombardia con la “Milano 2”.
Berlusconi non era sconosciuto alla mafia se è vero come hanno raccontato diversi pentiti si era raccomandato con un mafioso di Mazara del Vallo, Ciccio Messina, detto u muraturi, per costruire un villaggio turistico nella zona di Campobello di Mazara, ma i Messina Denaro a lui preferirono appoggiare un loro paesano, il cavaliere Carmelo Patti. Il villaggio non si fece ma quelle raccomandazioni c’erano.
Torniamo al senatore D’Alì. Nonostante da anni si discuta di legami con i Messina Denaro, della vendita finta di terreni a Zangara, lui per anni è riuscito ad evitare ogni processo. Ora invece è finito sotto processo.
Come ha evitato l’imputazione? Il pm Paolo Guido nella requisitoria indirettamente l’ha spiegato, “D’Alì è un soggetto accorto, sottile e prudente…”.
Per lui ci sono due richieste di archiviazione l’ultima respinta dal gip e la Procura di Palermo facendo ulteriori approfondimenti come chiesti dal giudice Antonella Consiglio, che di mafia trapanese se ne intende parecchio, per essere stata più volte pm in processi su Cosa nostra trapanese, hanno trovato fili che erano tenuti segreti, coperti, sono venute fuori dichiarazioni di collaboratori rimasti fermi in alcuni fascicoli, nuove indagini hanno evidenziato il legame di D’Alì con imprenditori che operavano in nome e per conto della mafia op che comunque erano legati alla mafia di Matteo Messina Denaro.
“Ci sono politici – ha detto l’altro pm Andrea Tarondo – che non rispettano la distanza di sicurezza dalla mafia”. “D’Alì è uno di questi”.
I pm sono giunti alla richiesta di condanna partendo da una pena invocata di undici anni, ridotta poi di un terzo per il rito abbreviato.
La cosa tradotta significa che per i magistrati della Dda di Palermo il ruolo di Antonio D’Alì nelle vicende mafiose “non è stato da semplice portatore d’acqua al mulino dei mafiosi”.
L’accusa lo ha collocato all’interno degli scenari della “nuova” Cosa nostra, “quel contesto dove non ci sono “punciuti” ma soggetti che si prestano o si sono prestati a dare una mano ai boss per potere condurre i propri affari e mantenere il controllo del territorio, non solo controllo “militare” ma anche di sociale, economico, imprenditoriale…e politico”.
La politica per fare pilotare in favore di imprese mafiose grandi appalti, la politica per fare trasferire da Trapani, nell’estate 2003, un prefetto, Fulvio Sodano, del quale i mafiosi intercettati sono stati ascoltati auspicare la sua “cacciata”, cosa avvenuta.
Il nome di D’Alì da sempre è legato a quello dei famigerati assassini Messina Denaro, Francesco e Matteo, padre e figlio, suoi campieri nei terreni di Zangara a Castelvetrano, la patria dei boss.
Don Ciccio è morto (da latitante) nel 1998, ucciso dal crepacuore per l’arresto dell’altro figlio, Salvatore, che guarda caso lavorava dal 1977 alla Banca Sicula, la banca della famiglia D’Alì sin dal 1977.
Matteo Messina Denaro lo conosce da bambino, e oggi è l’erede di Provenzano, Matteo ha 51 anni, latitante da 20 anni, latitanza che sta mettendo in crisi la Procura di Palermo ma non i politici che seriamente non si occupano di dare manforte agli investigatori che lo cercano, anzi accade pure che qualcuno di questi investigatori venga fatto uscire di scena, come l’ex dirigente della Mobile Giuseppe Linares, Matteo Messina Denaro da latitante si sarebbe anche incontrato con il senatore D’Alì.
Messina Denaro agevolati dal senatore in una operazione di riciclaggio per 300 milioni di vecchie lire. Quella dei campieri mafiosi in casa D’Alì è una tradizione che non si ferma, oggi ad occuparsi dei terreni del fratello del senatore, Pietro D’Alì, sempre nelle campagne di Zangara, è un pregiudicato per mafia ed estorsioni, Vincenzo La Cascia.
E A Zangara resta intoccata la comunanza di proprietà tra i D’Alì e i Messina Denaro.
Zangara è una distesa di vigneti e uliveti, la terra qui da buoni frutti e qui sono stati confiscati terreni che erano di Bernardo Provenzano e della moglie Saveria Palazzolo, di Totò Riina.
Agli atti del processo anche la testimonianza dell’ex moglie di D’Alì, Antonietta Picci Aula, che ha detto di avere visto un giorno giungere al marito il telegramma di un boss dal carcere che si lamentava di essere stato dimenticato dal marito.
Appalti milionari per i porti di Trapani a Castellammare del Golfo finiti “grazie a D’Alì” in mano di imprese mafiose.
Ladri e assassini fanno quello che vogliono, e la polizia, con il pretesto di mantenere l’ordine, sta sui campi di calcio… per guardare la partita! Oppure gioca a fare la guardia del corpo del senatore Ardoli…!” E’ un passaggio de “la Gita a Tindari” uno dei libri usciti dalla penna di Andrea Camilleri.
L’Ardolì della penna del maestro Camilleri sembra essere il D’Alì della realtà, dal 2001 al 2005 è stato sottosegretario all’Interno, con tanto di scorta, si occupò di sicurezza e criminalità nonostante i suoi storici rapporti con la famiglia mafiosa dei Messina Denaro di Castelvetrano.
Ora provate a cercare tutte queste notizie sulla stampa.
Non c’è nulla. O meglio trovate pedissequamente riportate le dichiarazioni diffuse alle redazioni dai suoi difensori. E così nei giorni in cui a parlare sono stati i pm, è come se avessero discusso gli avvocati con le loro arringhe. Le parole dei pm? Niente a parte qualche eccezione non le trovate.
Il processo si svolge col rito abbreviato e quindi a porte chiuse, la difesa si è opposta all’ingresso dei giornalisti, e però ai giornalisti puntualmente fornisce il suo pro memoria.
A nessun giornalista, anzi a moltissimi giornalisti, tranne qualche eccezione, è venuto in mente di andare a cercare i pm Guido e Tarondo. E così il dibattimento non è sui giornali, sulle tv. A Trapani poi è praticamente sparito.
D’Altra parte Trapani è Gommopoli dove tutto sparisce presto inghiottito da questa strana gomma che assorbe tutto quello che di non buono avviene in città, qui la mafia continua a non esistere.
E l’informazione pure.