Delitto Rostagno, 25 anni dopo

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di Rino Giacalone

Alla 56 udienza del processo in corso a Trapani le difese degli imputati mafiosi avevano insistito perché la verità sull’omicidio venisse cercata tra gli “affari” della Saman, ma la testimonianza di un finanziere smonta questa ipotesi// – Venticinque anni fa già  a quest’ora i killer ai quali era stato ordinato di andare ad uccidere “chiddu ca varva” (quello con la barba, ndr) erano pronti. Dall’autoparco delle auto rubate a disposizione della criminalità avevano già preparato la Fiat Uno rubata molto tempo prima per permettere ai sicari di arrivare a Lenzi, uccidere ed andare via. Il fucile a pallettoni e la calibro 38 erano state già preparate, oliate, così come le cartucce, sovraccaricate , come sapeva fare la mafia trapanese. Intanto Mauro Rostagno in tv a Rtc scriveva il suo editoriale sull’omicidio appena compiuto a Caltanissetta del giudice Antonio Saetta e del figlio di questo giudice che ebbe la sventura di trovarsi con il padre quando i sicari gli tesero l’agguato eliminando un giudice scomodo e che si apprestava a presiedere un processo di appello contro Cosa nostra. A 25 anni da delitto di Mauro Rostagno c’è un processo in corso a Trapani da due anni, dinanzi alla Corte di Assise presieduta dal giudice Angelo Pellino. Due imputati, Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Virga era il capo del mandamento mafioso di Trapani in quel 1988 e che tale sarebbe ancora stato sino al 2001 quando la Squadra Mobile di Trapani andò a snidarlo nel suo nascondiglio di Fulgatore, in un baglio a pochi chilometri dalla sua abitazione, in mezzo alle campagne dove allora come oggi la mafia dei latifondi continua a comandare senza che nessuno ne denunci la presenza. Vito Mazzara era il sicario fidato della mafia trapanese. Ufficialmente piccolo imprenditore agricolo, era un campione nazionale di tiro a volo, camminava armato, semmai fosse stato fermato poteva dire che era armato, con tanto di porto d’armi, perché andava ad esercitarsi a sparare, intanto andava ad ammazzare “cristiani”, uomini, le vittime contro le quali Cosa nostra andava pronunciando sentenze di morte irrevocabili. Tra un delitto e una gara nel periodo in cui era riuscito a farla franca forniva ricotta e formaggi ai supermercati dell’imprenditore di Castelvetrano Giuseppe Grigoli, il “re dei Despar” appena destinatario di una confisca da 700 milioni di euro.

Grigoli era il socio di Matteo Messina Denaro. Vito Mazzara conosce bene il super boss del Belice latitante dal 1993, perché con lui partecipava agli agguati ordinati dalla mafia. Quando si puliva le mani e le lavava del sangue dei morti ammazzati Mazzara se era il caso andava a frequentare, come faceva pure Vincenzo Virga, i salotti buoni del trapanese. Mazzara è in carcere dal 1996 quando fu arrestato dalla Polizia per avere ucciso l’agente di custodia Giuseppe Montalto, un delitto compiuto il 23 dicembre 1995 come “regalo di Natale” ai boss detenuti al 41 bis. Dal 1996 Vito Mazzara è mantenuto in carcere dalla mafia trapanese, “è un pezzo di storia – furono un giorno sentiti dire due mafiosi di rango di Trapani – dobbiamo aiutarlo se si pentisse siamo rovinati” e quei mafiosi addirittura pensavano di organizzare una evasione per aiutare Vito Mazzara. Virga e Mazzara sono in carcere scontano ergastoli. Nel processo attraverso i loro difensori, Ingrassia e Vezzadini per Virga, Vito e Salvatore Galluffo per Mazzara , si stanno difendendo per portare lontano dalla mafia e da loro il delitto Rostagno. Quando invece diversi collaboratori di giustizia hanno raccontato il contrario. Un delitto ordinato da don Ciccio Messina Denaro, il patriarca della mafia belicina morto nel 1998. Colui il quale al figlio Matteo ha ceduto non solo per eredità naturale il bastone del comando. Oggi, alla ripresa del processo, dopo la pausa estiva, è stata rinviata l’audizione del pentito Pietro Scavuzzo, il collaboratore di giustizia che nel 1994 per la prima volta tolse il cappuccio al capo mafia Vincenzo Virga, fu il primo a fare il nome di Virga quale capo mafia di Trapani. Scavuzzo ha chiesto di deporre assistito dal suo avvocato di fiducia, l’avv. Carlo Fabbri. Tornerà in aula il 23 ottobre. Testimone è stato un sottufficiale della Guardia di Finanza, il maresciallo Giacomo Sorrentino.  Agli atti della Corte di Assise c’è una sua documentata relazione sui conti della comunità Saman. Le difese avevano paventato un delitto maturato dentro la comunità fondata da Rostagno. A pochi metri dal cancello di ingresso della comunità Saman a Lenzi, Rostagno fu barbaramente ammazzato, come sa solo fare la mafia, la sera del 26 settembre 1988. La Cote di Assise ha in modo approfondito sondato questo terreno. Ma oggi la tesi della difesa si è sciolta come neve al sole, come altre piste. Rostagno ucciso perché aveva scoperto gli affari sporchi del guru Francesco Cardella? Cardella è morto da due anni oramai, fu fondatore con Rostagno e con la compagna di questi, Chicca Roveri, della Saman. Prima di morire Cardella ha subito una pesante condanna per peculato e truffe fatte con i soldi di Saman. A Chicca Roveri toccò addirittura vedersi arrestata e accusata di essere stata complice del delitto di Rostagno, di avere favorito i killer che erano giovani della Saman. Una indagine archiviata. Una pista sbagliata. Rostagno ucciso perché aveva scoperto falsi sui libri contabili? “Rostagno non aveva cariche societarie, la Saman nel 1988 era una comunità sostenuta da scarsi fondi pubblici, non c’era quel giro vorticoso di denaro che invece si sviluppo’ invece negli anni a seguire”. Insomma i soldi non c’entrano proprio con il delitto del sociologo e giornalista di Rtc.

Magari adesso diranno che il delitto fu funzionale a spianare questa crescita “delle ricchezze” della Saman, ma per la verità negli anni ’90 non fu solo Saman a ricevere copiosi fondi pubblici dallo Stato e dagli enti locali, in tutta Italia. La testimonianza del maresciallo Sorrentino quindi ha escluso confluenze tra i denari con i quali Cardella si arricchì, fatti per i quali è stato condannato in anni recenti, e il piombo delle armi usato per uccidere Rostagno. A cadere anche l’ipotesi che nel periodo vicino al delitto Chicca Roveri avesse firmato un assegno di 2 milioni a Giuseppe Cammisa, il famoso Jupiter, fatto che era stata introdotto durante il processo e che proprio prima della pausa estiva aveva visto Chicca Roveri chiamata ancora a deporre e in quell’occasione si lasciò andare ad uno sfogo, e poi ad un pianto, perché lei stessa ha dovuto amaramente sottolineare che un “killer non costa certo due milioni”. Il processo di oggi è stato questo. Ma non solo. Il presidente Pellino ha annunciato che dalla fine di ottobre, ascoltati gli ultimi periti incaricati di fare ulteriori accertamenti sui reperti, si andrà verso la discussione, requisitoria dei pm, intervento delle parti civili, arringhe ed eventuali repliche. Per la discussione si terranno due udienze a settimana, forse anche tre. Tra dicembre e gennaio la sentenza. Venticinque anni dopo il delitto. E per la Sicilia non è una novità a proposito di giornalisti ammazzati dalla mafia che le sentenze arrivino a così tanti anni da questi delitti. Intanto per il processo Rostagno chi ha voglia potrà fare un interessante riassunto di questi anni trapanesi, anni duranti i quali la mafia che sparava è diventata la mafia che fa impresa, che ha saputo creare ricche casseforti e che ha mandanto in Parlamento anche qualche rappresentante. Così è… senza vi pare.

da liberainformazione.org


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