Mi chiedono spesso perché io, da avvocato, difenda la magistratura ed i magistrati. E mi chiedono anche perché sia contrario ad alcuni dei referendum presentati dai Radicali. Eppure, non penso che questa mia posizione sia in contrasto con il mio ruolo di avvocato. Penso che l’avvocatura e la magistratura partecipino, insieme, alla tutela della legalità: da avamposti diversi, ovvio, e con strumenti diversi, ma ciò che deve essere chiaro è che nessuna delle due possa e debba puntare all’indebolimento dell’altra. Che questo nostro Paese abbia un disperato bisogno di una riforma della Giustizia non vi è dubbio: una riforma, però, che dovrebbe iniziare dal codice penale e continuare con il codice di procedura penale, e che, soprattutto, dovrebbe avere come unico ed indefettibile obiettivo quello del corretto funzionamento della macchina della giustizia che sia in grado, contemporaneamente, di assicurare il rispetto della legalità ed anche di tutelare i diritti dei cittadini (siano essi indagati e poi imputati e finanche, come ovvio, detenuti) nel momento in cui siano soggetti al controllo di legalità. In questo senso è certamente ineludibile il tema della lentezza della giustizia, perché una giustizia lenta è, soprattutto per le vittime, una giustizia negata e per coloro che subiscono un processo un calvario nel corso del quale la certezza del diritto si sfalda. Mi chiedo però se alcuni degli strumenti referendari abbiano come obiettivo il miglioramento della stessa macchina giudiziaria o, viceversa, non siano motivati da una spinta ideologica (ed a tratti punitiva) nei confronti di una intera categoria, la magistratura. La separazione delle carriere è, forse, uno degli obiettivi più perseguiti da una parte dell’avvocatura (non tutta, ed è corretto dirlo) e da una larga fetta del potere politico. Si dice: il pubblico ministero ed il giudice non possono essere espressione della stessa categoria, non possono condividere la stessa carriera, perché questa identità porrebbe, soprattutto il pm, in una posizione di vantaggio rispetto all’avvocato. E’ vero? Io penso che sia una opinione, non suffragata da dati di fatto. E penso, anche, che separare le carriere avrebbe un effetto tutt’altro che garantista. Il pubblico ministero, nell’attuale ordinamento, ha l’obbligo di ricercare la verità e questa circostanza lo obbliga a condurre in giudizio anche eventuali fatti a discarico dell’imputato. Ipotizziamo che il pm divenga un super poliziotto: a quel punto egli non avrebbe alcun obbligo di ricercare la verità, ma perseguirebbe, specularmente a noi avvocati, un interesse di parte. Che potrebbe palesarsi, anche, in condotte persecutorie. Sarebbe questa una soluzione più garantista? E non è affatto vera l’obiezione che molti colleghi muovono: il pm dovrebbe essere “una parte” così come l’avvocato. Certo, il pm è una parte ma, diversamente da noi avvocati, persegue un interesse che è generale e che non è di parte. E questa differenza, fra noi avvocati e i magistrati, non potrà mai venir meno. Inoltre, nella mia esperienza posso affermare che non è affatto vero che il pm non dia mai ragione alle tesi difensive tanto che spesso vi sono proscioglimenti e richieste di assoluzione ed altrettanto spesso, in ogni caso, il giudice contraddice le richieste della pubblica accusa. Bisogna pur dire, per onestà, che vi sono pubblici ministeri che hanno, talvolta, strumentalizzato la propria funzione, come Ilda Boccassini ha ricordato, ma ciò verrebbe, invero, soltanto amplificato dalla separazione delle carriere. Stesso discorso per l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati, nei casi di colpa grave addirittura nell’interpretazione del diritto e nell’interpretazione dei fatti di prova. Ora, l’attività di “interpretazione” del diritto è una delle principali attività del magistrato e peraltro è l’attività che ha permesso al diritto, di evolversi in relazione con la società che lo circonda: grazie all’interpretazione del diritto soggetti che prima non erano sufficientemente tutelati lo sono stati, grazie a questa attività la società è progredita nella sua civiltà. Rendere i magistrati responsabili per questa loro attività significa soltanto spingerli a scelte interpretative scontate, sempre uguali a se stesse e soprattutto mi chiedo cosa possa accadere se un magistrato ha dinanzi a se una controparte debole ed una molto più forte: da quale parte penderà la bilancia nell’ottica di una eventuale ritorsione per la scelta compiuta, tenuto in conto che, ad esempio nel processo civile, si tratta, sempre, di dar ragione ad una parte e tolto all’altra. Emerge, dunque, una considerazione molto semplice: queste soluzioni appaiono ingiuste, non migliorative della condizione della giustizia e tantomeno garantiste. L’avvocatura dovrebbe tener conto di tutto ciò e, soprattutto, dovrebbe evitare di farsi trascinare, per una pur comprensibile voglia di rendersi “più forte” dinanzi alla magistratura, in una campagna di discredito nei confronti della magistratura, che è, a mio avviso, la sola ragione (o almeno la principale) che guida la politica da circa venti anni a questa parte. Non possiamo, noi avvocati, far finta che da un ventennio ogni intervento sulla giustizia è legato al tentativo di salvare imputati eccellenti. Non possiamo far finta di non capire che ciò che si chiede non è garantismo, e cioè presidio di tutela dei diritti per tutti, ma impunità, che è prerogativa dei potenti. Non possiamo nasconderci che il non voler riconoscere la legittimità dell’attività della magistratura, non rispettarne le sentenze sono sintomi di un degrado che non ha eguali nel mondo occidentale. Non possiamo, ancora, mantenerci neutrali dinanzi alle offese ed alle accuse mosse a quei magistrati che hanno svolto il proprio dovere anche nei confronti di esponenti politici che sostengono che il voto popolare li ponga al di sopra della Legge. E non possiamo fare tutto ciò non soltanto, e non è poco, perché abbiamo un dovere di fedeltà nei confronti della Carta Costituzionale ma anche perché il nostro silenzio è grave nei confronti dei nostri assistiti che non hanno, certo, per intenderci, il potere di gettare fango verso i magistrati, magari attraverso un video messaggio. Ed è ingiusto anche per il nostro ruolo: perché noi garantiamo la corretta applicazione delle leggi ma non abbiamo, come altri imputati, il potere di intervenire sulle leggi. Per tutte queste ragioni credo noi avvocati non possiamo non difendere, oggi, la magistratura ed i magistrati.
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