Le polemiche sul reality show ‘The Mission’, la cui programmazione in Rai è prevista per il prossimo dicembre, non sono giustificabili esclusivamente per l’uso scandaloso e cinico del dolore da parte della televisione ma anche, e soprattutto, perché da anni la Rai e i più importanti media italiani ignorano e censurano le notizie sulle crisi dimenticate, come quella in atto in Darfur.
Proprio per squarciare la cortina di silenzio sul conflitto in atto dal 2003 nella regione occidentale del Sudan, dopo aver visitato i campi profughi e aver realizzato un reportage sul Darfur, nel 2005 ho deciso di impegnarmi in prima persona affinché anche in Italia si conoscesse il dramma che si viveva in questo angusto angolo di mondo.
E’ nata così, con l’aiuto di Mauro Annarumma ideatore di una rete con migliaia di blogger, la campagna di ‘Italians for Darfur’ per chiedere alle maggiori emittenti televisive italiane una migliore e maggiore informazione sulle crisi umanitarie. Campagna in cui ho coinvolto Articolo 21, di cui sono membro e convinta sostenitrice.
In poche settimane sono state raccolte decine di migliaia di firme con un appello firmato anche da personalità della cultura, dello spettacolo e del mondo politico.
Quest’azione ha portato, nel primo anno di attività dell’associazione, a un primo, infinitesimale successo: dalle 12 notizie nei tg del 2006 si è passati alle 54 del 2007 come certificato dall’Osservatorio di Pavia.
Nello stesso anno, grazie all’accoglimento delle nostre proposte da parte di alcuni parlamentari, sono state approvate due risoluzioni dalla Commissione Vigilanza della RAI che impegnavano il Servizio pubblico a migliorare la qualità informativa su diritti umani e sui conflitti dimenticati.
Qualcosa, dunque, è cambiata, ma non abbastanza. Comprendiamo, quindi, cosa abbia spinto UNCHR e Intersos ad avallare e sostenere il format di Mission. L’intento di volere dare visibilità a tematiche poco ricercate dal pubblico, inutile nascondersi la realtà, è senz’altro nobile ma sarebbe opportuno che la direzione della RAI e i produttori della trasmissione spiegassero le modalità di questo ‘docu-reality’ e chiarissero se sia previsto che i ricavi pubblicitari, o una parte di essi, siano devoluti a progetti umanitari.
E’ auspicabile, inoltre, che al programma siano affiancati spazi di informazione sulla situazione umanitaria e sullo stato dei conflitti.
Sarebbe, infine, gradito un chiarimento: come mai si investono in Africa ingenti risorse economiche in una produzione così dispendiosa quando pochi mesi prima si è deciso di chiudere la sede africana della RAI, di cui la gran parte dei servizi non ha trovato spazio nel palinsesto televisivo pubblico?
Detto questo, vale la pena porsi una domanda: piuttosto che chiedere la sospensione del programma non sarebbe più utile ‘ricordare’ alla Rai le proprie responsabilità sulla qualità dell’informazione e sui programmi del palinsesto televisivo, che non lasciano spazio, ancora oggi, a una seria e doverosa opera di rappresentazione e approfondimento di temi sensibili come i diritti umani, le minoranze e le devianze sociali, ancor più che si stratta di televisione pubblica, con precisi doveri e responsabilità di educazione e non solo di intrattenimento di bassa qualità?
Lo scorso febbraio la presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, rispondendo a un mio editoriale pubblicato su queste pagine, con il quale si chiedeva un format per i diritti umani e le crisi dimenticate in mancanza di spazio nei telegiornali, aveva risposto con una lettera al direttore che avrebbe “dato mandato alle strutture competenti per creare contenitori ad hoc per le tematiche trascurate dagli spazi dedicati all’informazione”.
Ci auguriamo che Mission non sia la risposta che attendevamo…
* giornalista e attivista per i diritti umani – presidente di ‘Italians for Darfur’