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Costituzione: riforme, non “sbreghi”

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Forse non parteciperò alla manifestazione del 12 ottobre, troppo eterogenei sembrandomi gli ideali dei proponenti. Ideali rispettabili, certo, ma non tutti sono i miei. Almeno sulle scelte politiche contingenti, per non dire di quelle di fondo, sostanziali e, perché no, ideologiche. C’è però un trait d’union fra tutti, la volontà di difendere questa Costituzione. Ognuno con qualche idea aggiuntiva, non osando dire migliorativa. Ecco perché, con o senza manifestazioni in piazza, sto con la Costituzione e critico la Relazione preparata dai “Saggi” a Francavilla a Mare. reperibile sul sito di Palazzo Chigi.

Ho già ricordato l’articolo del Sole24 Ore dedicato ai Sei libri dello Stato di Jean Bodin, “Se non è assoluta non è sovranità”. Lontani dal sospettare nei saggi reminiscenze e influenze inconsce di questa teoria assolutistica (fondatrice, col Principe, della scienza politica moderna), una certa polvere di pensiero bodiniano sembra restare sulle dita sfogliando le 33 pagine della Relazione. Il moderno monarca – si chiami presidente presidenziale o semipresidente, premier, cancelliere – se non è “assoluto” rischia di somigliare al suo opposto altrettanto poco gradevole: il presidente del consiglio italiano. Del quale il paese vuol liberarsi, per un vero governo che governi. A questo scopo hanno lavorato, con diverse e anche opposte idee, i nostri 35 saggi, diventati 33 dopo l’abbandono delle professoresse Carlassare e Urbinati, che denunciavano nei colleghi un dogmatismo presidenzialista, più distruttore che riformatore del nostro sistema parlamentare. Che forse basterebbe “razionalizzare” a fondo.

Obbiettivo della riforma – se è serio parlarne, con le minacce di elezioni a febbraio – è rendere veloce il processo legislativo, e quindi forte il governo che lo guida in parlamento.  Perciò, tra le varie possibili forme di governo democratico occidentale, escluso appunto il nostro bicameralismo paritario con presidente del consiglio primus inter pares, si è dato vita a un abilissimo gioco di prestigio. Col risultato di ridurre a triangolo il quadrilatero su cui poggia la nostra Costituzione: parlamento, capo dello stato, governo, organi di garanzia. Il lato che è scomparso è il Quirinale: che, nella crisi terminale del parlamentarismo, si è dimostrato nostra unica zattera di salvezza, anche con l’esercizio momentaneo di funzioni surrogatorie. Ora la riforma lo avvolge, come gli “irti colli” carducciani, nella nebbia di poteri sfumatissimi, assorbiti nella sostanza da un futuro “governo parlamentare del primo ministro”, che è anche premier (inglese), cancelliere (tedesco) e presidente (francese).

Non grideremo all’ircocervo, perché, disegnata su foglio bianco, la nuova figura non è propriamente un mostro da cattedrale di Notre Dame. Ma è così debordante, da schiacciare e sfumare ogni altra figura sulla tela del potere. Infatti, il sistema avrebbe per fondamento una sola camera legislativa e politica (la camera dei deputati, 450 membri), il sistema elettorale a doppio turno (proporzionale con premio maggioritario), il governo del primo ministro, che riceve la fiducia ad personam, nomina e sostituisce i ministri, può contare su scadenze rigide per l’approvazione dei suoi decreti e disegni di legge, è tutelato contro nuove maggioranze dalla sfiducia costruttiva. Insomma, Thatcher più Merkel. Che l’alchimia trasforma in Hollande. Il presidenzialismo, escluso nella costruzione formale della nuova repubblica, risulta unico residuo  concreto della precipitazione alchemica. Cos’altro potevano volere  i presidenzialisti? Obama? Tutto senza sospetto non si trova mai, insegnava Machiavelli, e i saggi seguono l’insegnamento, e lo scrivono  come distico in testa alla Relazione.

Più di questo, in una paginetta, non possiamo dire. Ma se il governo Letta regge e gli affanni finanziari del paese e i risentimenti del cavaliere consentiranno al parlamento di lavorare ancora un anno, non è detto che anche il progetto di Francavilla non possa arrivare al voto finale, con le auspicabili correzioni. C’è un altro rischio: che, avendo cambiato metà della Costituzione (non  vi abbiamo parlato delle regioni, dei referendum, delle garanzie), finisca anch’essa come la riforma di Berlusconi nel 2006, col rifiuto popolare di approvarla. A meno che non si pensi di sottoporre al referendum confermativo non la riforma nel suo complesso, ma i suoi singoli capitoli riformati. In tal caso, i saggi si trasformerebbero in furbi. Ci scusiamo del sospetto, e ci auguriamo di sbagliare.

 


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