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Cosa si muove dietro l’Equo compenso: quel diritto costituzionale che trasformato in legge non piace agli editori.

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Il fenomeno della precarizzazione e lo sfruttamento del lavoro autonomo
sono ormai le criticità che influenzano maggiormente le dinamiche sindacali
nel settore dell’informazione, all’interno delle quali costituiscono un
importante contropartita (forse la più grande) nella contrattazione con le
parti datoriali. È il caso di ricordare che la categoria dei giornalisti
rappresenta l’unico caso di professione ordinistica che non si può svolgere
“in proprio”. Infatti, a differenza di medici, ingegneri architetti o
avvocati, il giornalista non può “aprire uno studio” e avere un rapporto
diretto con l’utente finale del proprio lavoro: al contrario, anche in
forma autonoma dovrà sempre lavorare per conto di un azienda editrice.
Questa singolarità spiega come, da quando il Decreto Bersani sulle
liberalizzazioni ha abolito nel 2007 i tariffari di tutte le professioni,
gli editori riescono con successo a imporre un cartello di condizioni che
umiliano fortemente la maggior parte dei collaboratori, pagati generalmente
quando va bene poche monetine ad articolo, qualche centesimo a riga. Nel
bilancio di ogni testata ormai la produzione dell’informazione viene
ordinariamente ripartita tra due fattispecie di giornalisti, diverse solo
per la disparità di trattamento: i subordinati per i quali si osservano le
condizioni del contratto collettivo di lavoro; e, in numero sempre
maggiore, i collaboratori non subordinati, freelance e autonomi precari,
senza alcuna certezza di tutela e retribuzione.
Ecco perché il recente insediamento della Commissione prevista dalla legge
233/2012 sull’Equo compenso nel settore giornalistico ha innescato
immediatamente un processo di aspra e risoluta opposizione da parte degli
editori. Dapprima con l’aver tenuto ostruzionisticamente inchiodato per
mesi il suo Presidente, Giovanni Legnini, alla richiesta di vedere
riconosciuti più membri in commissione di quanto ne indicasse la legge. Poi
con la pretesa di utilizzare la CEC (Commissione equo compenso) non come
organismo preposto all’applicazione della legge, ma come sede “politica” di
dibattito per contestarne le disposizioni. Questo atteggiamento dilatorio
ha ottenuto l’effetto di indurre un cauto, diplomatico, atteggiamento da
parte del Sottosegretario Legnini: “Ho detto a tutti che quella legge non è
perfetta, ed è molto complicata da applicare. Nessuno sa con precisione
cosa sia l’equo compenso.” Ancora: “È un diritto dei giornalisti chiedere
l’equo compenso ma è fondamentale tenere in piedi le aziende editoriali e
non ammazzarle.” Come se nel nostro ordinamento lo sfruttamento permanente
dei lavoratori fosse un fondamentale diritto dell’azienda, in crisi o no. E
rimane questa in sostanza la traduzione delle posizioni espresse dagli
editori, come si ricava leggendo quelle, ad esempio, di Mediacoop e
Aeranti-Corallo, nell’intento di creare una cortina fumogena che
confonderebbe efficacemente chiunque non andasse poi a consultare il
conciso testo della 233/2012.
È una mistificazione affermare che le disposizioni della legge agiscono per
“reintrodurre il soppresso sistema tariffario” abolito con la
liberalizzazione. La materia della 233 è il denaro pubblico, non il mercato
privato. La legge non ha affatto il potere di imporre l’applicazione di
minimi e tariffe che riguardino il lavoro autonomo. Si limita a prevedere
l’obbligo della tracciabilità di tutti i rapporti di lavoro non subordinato
per poter stabilire se vengano effettivamente retribuiti secondo il
principio dell’equo compenso: cioè, come testualmente indicato, in coerenza
con la contrattazione collettiva nazionale per il personale subordinato. Se
l’editore non rispetta l’equo compenso, attuando difformità di trattamento
tra soggetti che svolgono la medesima attività giornalistica e imponendo
sfruttamento e mortificazione della dignità professionale del lavoratore,
non si capisce perché la collettività dovrebbe premiarlo con la concessione
di qualsiasi tipo di beneficio pubblico. Chi sfrutta, mortifica e
precarizza non ha diritto ad agevolazioni di alcun tipo. Sancire questo
elementare principio fa diventare la legge 233 rivoluzionaria. Perché,
banalmente, pagare un equo compenso compromette le consuete previsioni di
bilancio dei datori di lavoro.

LA SOLUZIONE
“Legge complicata da applicare? Che ammazza le aziende editrici?” Niente
affatto. La soluzione di compromesso è sotto gli occhi di tutti: salomonica
e intuitiva, è stata appena individuata e applicata in una trattativa dai
termini analoghi.
Proprio un mese fa per la prima volta è stata siglata una contrattazione
che riguarda probabilmente la più tipica tipologia di lavoro sottopagato e
precario in Italia, quella degli operatori dei call-center “outbound” (che
chiamano per proporre servizi).
Questi i punti principali dell’accordo:
a) Minimi retributivi rapportati al livello di inquadramento dei lavoratori
dipendenti. E’ prevista una scaletta progressiva che parte dal 60% del
minimo dal 1° ottobre 2013 per arrivare alla parità nel 2018;
b) Assicurata una garanzia di continuità occupazionale, stabilendo un
meccanismo di prelazione attivabile dal collaboratore.
c) Viene costituito, a partire dal 1° gennaio 2014, un Ente bilaterale che,
a partire dal successivo 1° luglio erogherà prestazioni di sostegno in
favore dei collaboratori affetti da gravi patologie, alle collaboratrici in
caso di maternità e per le attività formativa.
Permane una disparità di trattamento transitoria che però riconosce il
principio della perequazione finale con i minimi retributivi dei lavoratori
subordinati.
Si tratta di un criterio limpidissimo che potrebbe immediatamente essere
adottato anche nel contratto nazionale di lavoro giornalistico, per
comprendere al suo interno le forme di flessibilità e le retribuzioni
minime che riguardano il lavoro autonomo.

IL RILANCIO DEL SETTORE DELL’INFORMAZIONE
Lo scorso 6 agosto è stata annunciata l’intesa tra il Governo e i
rappresentanti di editoria e informazione su nuovi interventi pubblici per
favorire la ripresa del settore. Ma è retorico, anzi ridicolo parlare di
rilancio dell’informazione senza voler investire nella qualità del prodotto
giornalistico. Le aziende non possono pretendere che sostegno e sviluppo
delle impresi editrici, attraverso provvidenze statali per giunta,
comprendano l’impunità nel continuare lo sfruttamento di gran parte della
loro forza lavoro. Le risorse vanno indirizzate verso l’innalzamento dei
livelli occupazionali, non per cassintegrare e pre-pensionare i dipendenti
delle aziende in crisi, che continuano a restare in crisi per motivi che
riguardano la gestione d’impresa e non il lavoratore. Bisogna riconoscere
che esistono anche grandi responsabilità all’interno della categoria,
denunciate attraverso la Carta di Firenze dell’Ordine dei giornalisti
entrate in vigore nel 2013. L’editore ha un inesauribile bacino di
giornalisti “sciagurati” che accettano di essere pagati tutta la loro vita
professionale poche monete ad articolo. E vi è una catena di comando
all’interno delle redazioni che rende possibile l’utilizzazione permanente
di uno stuolo di precari e autonomi sfruttati.
L’Ordine sta affrontando il tema della propria riforma. Uno degli aspetti
da affrontare riguarda la permanenza dell’iscrizione. Non solo è
necessario, come è già previsto, dimostrare di svolgere attività
regolarmente pagata per ottenere l’iscrizione. Occorre stabilire, come
avviene in altri paesi, una soglia di reddito giornalistico minimo annuo
per mantenere lo status professionale, che renda impossibile continuare a
retribuire un’attività professionale con una cifra anche prossima allo zero.

Concludendo, gli editori che intendono oggi accedere a benefici pubblici
sono obbligati ad applicare l’Equo compenso subito. Incentivi, agevolazioni
e contributi pubblici di qualsiasi natura non possono infatti essere
erogati ai sensi della legge 233/2012 in caso di iniquo compenso e
sperequazione tra giornalisti subordinati e non subordinati. Per poter
governare la transizione tra l’attuale insostenibile situazione di
sfruttamento e il rispetto dei principi costituzionali e normativi
dell’equo compenso, la cosa più ragionevole è quindi concordare una
gradualità analoga alla soluzione adottata per il personale precario e
sottopagato nel comparto della telecomunicazione.
La palla è ora agli editori. Per potere usufruire di contributi pubblici
basterà prevedere nel testo del contratto collettivo di lavoro
giornalistico (appena scaduto, quindi da rinnovare) termini ragionevoli che
consentano di comprendere entro il contratto tutte le forme di lavoro
autonomo, rapportandone gradualmente il livello retributivo in coerenza con
quello dei lavoratori dipendenti e arrivendo nel tempo alla parità.
Chi osserverà il contratto nazionale, rispetterà l’equo compenso e potrà
accedere ai benefici pubblici. Chi liberamente non vorrà farlo, non avrà
diritto ad agevolazioni. Risolva quindi la propria crisi aziendale senza i
soldi dei contribuenti.
Chi non vuole il problema, adotti la soluzione di rispettare la legge.

* coordinatore Commissione lavoro autonomo regionale Assostampa Sicilia
componente Commissione lavoro autonomo nazionale FNSI


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