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Chi si comprerà Telecom Italia?

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Nelle telecomunicazioni – ex paradiso terrestre e ora settore ipermaturo- si lotta per vivere e sopravvivere. Ma venti di crisi si appalesano. Eccome. Vodafone si arricchisce ma esce da Verizon. Il Brasile è terra di conquista. La Cina è sempre più vicina… Ma in Italia il cuore della faccenda rimane Telecom.
Nella rubrica dello scorso 5 giugno avevamo visto i rischi (anche occupazionali) della storica azienda di tlc alle prese con l’ennesimo dibattito sullo scorporo della «rete», vale a dire del gioiello di famiglia. Qualche giorno dopo, la Commissione europea rendeva noti i dati sull’Agenda digitale, che prevede entro il 2020 una capacità trasmissiva di 30 megabyte al secondo per tutti i cittadini e di 100 almeno per la metà. Parliamo dell’unità di misura che segnala il potenziale di diffusione di dati, e di informazioni audio e video che vanno ad aggiungersi o a sostituirsi al vecchio cavo telefonico in rame. È stato (e continua ad essere) un capitolo cruciale del welfare. Purtroppo però l’Italia viaggia amaramente negli ultimi posti – prima solo della Grecia e di Cipro- nelle connessioni in larga e larghissima banda. E persino l’utilizzo di Internet – il 53% di italiani usa la rete almeno una volta alla settimana, contro il 70% della media europea- è tuttora arretrato. Insomma, la cittadinanza digitale è piuttosto indietro. La stessa Agenda digitale italiana sembra un’illustre sconosciuta.
Vi sono stati alcuni nodi terribili, veri e propri peccati mortali, che hanno contribuito a compromettere l’innovazione nel bel paese: la scelta dei primi anni Settanta di bloccare sul nascere la televisione via cavo -allora imperava il duopolio Sip per i telefoni e Rai per la radiodiffusione- attraverso una normativa antistorica; la centralità televisiva e la scelta dell’etere come territorio tecnico principale per favorire l’altro duopolio Rai e Fininvest-Mediaset; lo spreco della «rivoluzione digitale» impropriamente gestita come mero aumento dei canali televisivi; l’abbaglio della privatizzazione dell’azienda telefonica (nel frattempo diventata Telecom) in cui non furono distinti rete e servizi. La rete, cioè, poteva e doveva rimanere pubblica. Paradossalmente, si è detto, nelle settimane scorse si è parlato di nuovo – senza riconoscere l’errore – di quell’ipotesi. Ovviamente, la storia non si ripete mai in sequenza ma con qualche guaio in più. Tant’è vero che la conclamata ipotesi dell’ingresso della Cdp si è (forse?) persa per strada.
E quindi? Da un lato preme come un incubo l’enorme debito accumulato nel tempo -la famosa Opa di fine anni ’90 diede il suo bel contributo- cui non ha certo giovato la recente decisione dell’Agcom di abbassare le tariffe dovute agli altri gestori; dall’altro il venire a scadenza del «patto» di Telco, vale a dire il baricentro dell’azienda, con un «libera tutti» per azionisti che da tempo trovano troppo gravosa la situazione.
E qui -nella zona grigia- cominciano le avventure in un settore trainante vent’anni fa e adesso costretto a rifare conti e strategie.
In tale quadro, allora, diviene immaginabile una riedizione della scalata ai titoli di Telecom, come si dice a mezza bocca da un po’. Del resto At&T o Vodafone o Telefonica o cinesi o messicani un pensierino potrebbero pur farlo. Forse sì, forse no. Comunque, i problemi sono seri, come varie volte ha denunciato il presidente di Telecom Bernabé.
Che dice il governo? Sicuramente Enrico Letta e il ministro competente conoscono bene la situazione, che ha evidenti riflessi sull’immagine dell’Italia e comunque ha riflessi sul lavoro. La vicenda ha, dunque, un chiarissimo risvolto politico: dopo la triste e amara storia della Olivetti, dopo l’uscita di scena dell’industria italiana in un paese che con la Svezia detiene paradossalmente la percentuale maggiore di telefonini, anche l’ex monopolio finirà in qualche banchetto altrui? E le roboanti promesse «digitali»?

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