Quando sperava di smacchiare il giaguaro, Pier Luigi Bersani usava tracciare una linea di demarcazione tra “noi” e “loro” dicendo: “non siamo un partito personale”. Sono passati pochi mesi e lo sta diventando l’Italia un paese personale. Preso al laccio dalla maledizione di un uomo che ha paura di morire e orrore del declino, e ci abbraccia per trascinarci a fondo.
“Se cado il governo finisce”, Corriere della Sera. “Il ricatto di Berlusconi”, Repubblica. “L’aut aut di Berlusconi”, Sole24Ore. “Sfida tra Berlusconi e Letta”, La Stampa. Per la verità la sfida mi sembra unilaterale, a Genova si è limitato “non vedo margini in Giunta (a favore di B). Niente di più. E sfida anche a Napolitano. Il Giornale: “Quattro senatori a vita per salvare la sinistra”. “Quattro senatori del Colle per incastrare Berlusconi”, fa eco Il Fatto.
Ora si può criticare Napolitano, io sono una delle “formiche”, per dirla con Letta, che ha osato farlo. Si può, per esempio sostenere anche che scartando personalità della politica o dell’impegno civile, da Pannella a Gino Strada, da Letta a D’Alema, il Presidente abbia scelto la linea più facile. Si può obiettare che un paio dei nominati ha preso, per lavoro, la residenza all’estero. Ma ridurre Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rubbia e Claudio Abbado a 4 voti per un Letta bis o a 4 voti contro Berlusconi mi pare sintomo gravissimo di un’ossessione. Siamo un paese a misura di Berlusconi. Vecchio come lui, incapace, come lui, di guardare con fiducia al futuro.
Faccio un elenco di questioni importanti ma che rischiamo di rimuovere per occuparci del salvataggio (impossibile) di un pregiudicato dalla sua condanna definitiva. 1) L’intervento in Siria. Il nostro ministro degli esteri promette che ce ne terremo fuori e dice di temere “una deflagrazione globale”. Ma forse il Pd che assente dovrebbe spiegarci perché è stato giusto, invece, bombardare la Serbia. Mentre chi consente con la Bonino dal campo del PDL si dovrebbe ricordare dell’Iraq, della “coalizione di volenterosi” e dell’accusa di filo terrorismo a chi diceva che Saddam le armi chimiche non le aveva. 2) L’Europa. Tra pochi giorni il voto tedesco, che probabilmente ci obbligherà a fare ancora i conti con la peggiore idea di Europa in campo, quella taccagna e Germano solipsista di Angela Merkel. 3) Non parliamo più del lavoro, mentre quello che fu il paese del posto garantito somiglia sempre di più a una selva per precari sotto pagati e con pochi diritti. 4) E non parliamo nemmeno di corruzione e mafia. Se non facendo finta di indignarci perché una giovane donna difende il nome che le è toccato in sorte, anche se è quello di Totò Riina. L’Italia del Cav. ha altro a cui pensare.
Mi sarebbe piaciuto intervistare Enrico Letta, ieri a Genova. Non per contrappormi: non ci si contrappone facendo domande. Ma per aiutarlo a dimostrare quel che vale. Quando ha detto “questo è il governo per cui sto dando tutto il mio sangue, la mia salute e il mio impegno, ma non è il governo per il quale ho fatto la campagna elettorale”, gli avrei chiesto “ma come si esce da questa che lei stesso definisce una “emergenza”? E subito dopo: “allora lei è contrario all’idea del presidente Napolitano, e cioè che le “larghe intese” siano prospettiva di lunga lena, necessaria per riformare la Costituzione e rifondare il Paese?”. Nel suo intervento Letta si è vantato di aver proposto Cecile Kyenge ministro. “Bene – gli avrei detto – ma perché il governo non lascia lavorare il Parlamento sui diritti degli immigrati e sui diritti civili? Forse perché il suo alleato, il PDL teme che così si possano sperimentare altre maggioranze e più riformatrici?”. Ancora avrei voluto domandare al Premier cosa pensi del silenzio del Pd sull’Europa e da cosa tragga la convinzione che il semestre di presidenza italiano possa, invece, una buona messe. Infine, per par condicio: “Ma se lei, Letta, ha fatto dimettere Josepha Idem per una irregolarità fiscale, perché ora non chiede a Berlusconi di farsi da parte, dopo la condanna definitiva per frode fiscale?”
“Se diventerò segretario la prima cosa che rottamerò, saranno le correnti”. Parola di Matteo Renzi. In realtà, vasto programma! Intanto chiamiamole con il loro nome, non “correnti” ma “cordate personali” (la definizione è del Senatore Salvini), che prendono in ostaggio il partito e selezionano persone di loro fiducia per incarichi pubblici e cariche elettive. Vi racconterò qualche episodio siciliano. Una volta ho dovuto difendere il povero Bersani da una di queste “cordate”, non la meno influente, che voleva riconciliarlo a tavola con tal Papania, escluso dalle liste per i precedenti giudiziari. L’altro escluso, Crisafulli, non apparteneva alla cordata giusta, dunque veniva lasciato senza spiegazioni nel suo Lazzaretto di Enna. Solo io, capolista al Senato ma indipendente, ho sentito il dovere di andarlo a trovare, fra la sua gente, per dirgli perché ritenevo fosse stato giusto escluderlo e perché io, al suo posto, non avrei mai incontrato un certo mafioso, neppure per rispondere no alle sue richieste. Ma dopo il purgatorio elettorale, “Mirello” torna di nuovo utile e viene subito arruolato nella battaglia delle cordate contro Crocetta. Il quale di cordata se ne è costruita una esterna al Pd e l’ha chiamata Megafono. In campagna elettorale dovunque andassi mi trovavo un capo cordata (o più di uno) così, per controllare. Dopo, ogni spazio di dibattito è stato soppresso. I capi cordata aspettano di capire chi vincerà per poi dividersene le spoglie.
Fabrizio Barca vorrebbe rivoltare questo stato delle cose come un pedalino. Pippo Civati con tutto ciò non c’entra niente e gliene fanno pure una colpa. Cuperlo promette di cambiare radicalmente. Renzi vuol rottamare e io lo prendo sul serio. Mi piacerebbe, in questo, dargli una mano.