A pochi mesi dalla denuncia dell’Usigrai e di Medici Senza Frontiere sulle crisi umanitarie cancellate dall’informazione televisiva (solo un misero 4% delle notizie), il servizio pubblico sceglie la via del reality per colmare il vuoto informativo. Con The mission, in onda il 17 novembre potrebbe essere affidato a Michele Cucuzza, Albano, Emanuele Filiberto (nella foto), Paola Barale e altre quattro “celebrities” il compito di far conoscere il dramma di 40 milioni di persone costrette a lasciare il loro paese per sfuggire a guerre e persecuzioni. Ci chiediamo se sia questa la strada per affrontare una questione così delicata, se – con tutte le accortezze del caso – sia il reality la formula giusta per informare una realtà così dolorosa e complessa, se sia opportuno affidare a cantanti e soubrette il racconto di crisi umanitarie. La forma in televisione è sostanza. La formula del racconto non è secondaria, così come la credibilità e l’autorevolezza di chi racconta. “Per dieci giorni vivrò tra i rifugiati del Sudan – ha detto Albano. Sarà un’esperienza straordinaria. Mi arricchirà umanamente”. Ma bastano dieci giorni di “condivisione” sotto i riflettori per conoscere la realtà dei rifugiati? O la Rai, servizio pubblico, si accontenta di alimentare un po’ di buoni sentimenti per lavarsi la coscienza davanti a quel misero 4% di notizie che i Tg dedicano alle grandi crisi mondiali? Siamo convinti che la Rai possa fare di più e meglio, scegliendo i linguaggi adatti ai contenuti. Lo spettacolo sulla pelle di chi soffre non ci piace. Ci piace e crediamo nell’informazione.
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