Risposta all’articolo “Il grillino antisionista e la censura mancata” del “giornalista” Toni Jop, pubblicato su L’Unità in data 30 luglio 2013.
Qui accanto, può visionare personalmente il testo originale della Risoluzione con la quale le Nazioni Unite, nel novembre del 1975, votarono a maggioranza dichiarando, e lo si legge chiaro nell’ultimo periodo, …il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale.Sig. Toni Jop, il suo articolo apparso sull’Unità il 30 luglio scorso poteva essere, cogliendo lo spunto offertole dal parlamentare del movimento 5 stelle, Paolo Bernini, l’occasione per discutere autorevolmente di un tema, il sionismo, che eticamente dovrebbe trovare tutti sempre e comunque schierati contro, trattandosi della più bieca tra le ideologie nazional-colonialiste dell’ultimo secolo, anche peggiore dell’apartheid sudafricana, (secondo le parole dello stesso premio Nobel per la pace, Nelson Mandela), ma invece si è trasformato nella sua ennesima difesa aprioristica, scevra peraltro di argomenti.
Sa, non erano le parole del giovane parlamentare summenzionato, ma l’esito della votazione dell’Assemblea Generale dell’ONU in seduta plenaria. Tutti antisemiti? Ma cerchiamo di fare ordine. Il sionismo nacque nella seconda metà del XIX come movimento politico-nazionalista fondato sull’idea del ritorno di tutti gli ebrei sparsi per il mondo ad Eretz Israel, la “terra promessa da Dio al popolo eletto”, con l’obiettivo di costruire uno Stato indipendente per assicurare loro condizioni di vita dignitose, non più soggette all’umore dei popoli che li ospitavano. Non avendo, però, trovato alcun paese disposto a cedere parte della propria sovranità territoriale per consentire ai sionisti di crearselo, questi puntarono sulla Palestina spacciandolo per un territorio disabitato e desertico, e coniando la celebre frase “un popolo senza terra [ebrei] per una terra senza popolo [Palestina]”, pur sapendo perfettamente che in realtà era tutt’altro che disabitata e deserta. Furono, quindi, la consapevole negazione dell’esistenza della popolazione nativa palestinese e la decisione del Sionismo di realizzare il suo obiettivo (oggi quasi completato) a danno del germogliante diritto nazionale di un’altra collettività ad accendere la miccia della secolare questione.
Detto ciò, e stiamo parlando del 1897 (1° Congresso mondiale sionista), quindi di mezzo secolo prima della 2a guerra mondiale e delle tragiche persecuzioni nazifasciste, fu la Gran Bretagna a decidere, senza averne titoli, il destino di quella terra e dei suoi abitanti con la famosa Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), con la quale il governo di sua maestà si ritenne favorevole all’istituzione in Palestina di un “focolare nazionale ebraico”. Il che dette avvio a ripetute ondate migratorie clandestine di ebrei provenienti dall’Europa che andarono pian piano soffocando i propositi emancipatori della popolazione indigena palestinese, dopo secoli di sudditanza a popoli e sovrani, in barba alle promesse d’indipendenza e di autodeterminazione fattele da Londra in cambio del suo sostegno all’esercito britannico per abbattere l’impero ottomano. Fu allora che il sionismo teorico si trasformò in sionismo pratico innescando quello che è erroneamente conosciuto come “conflitto” israelo-palestinese, pur trattandosi di mera occupazione coloniale.
Ora, sig. Toni Jop, la tristemente nota risoluzione di spartizione della Palestina n°181, votata dall’Assemblea Generale il 29 novembre 1947, stabilì quali confini avrebbero avuto i due territori e che fosse garantita la libertà ai singoli individui di scegliere in quale dei due vivere; oltre a ciò, previde un’amministrazione internazionale per Gerusalemme gestita dall’ONU. Tutte chiacchiere, purtroppo, poiché subito dopo la sua approvazione le forze militari sioniste (e le suggerisco la lettura del testo storico del prof. israeliano Ilan Pappe “La pulizia etnica della Palestina”) avviarono un’operazione di “epurazione” della popolazione nativa dai villaggi palestinesi venuti a cadere all’interno dei confini del futuro Stato sionista, che causò una prima cacciata di 250.000 di essi e la distruzione di 531 dei loro villaggi, sulle cui rovine sono poi stati intenzionalmente edificati insediamenti urbani o creati parchi naturali e luoghi di svago, per occultarne la testimonianza storica. Alla dichiarazione unilaterale della nascita dello stato di Israele, il 15 maggio 1948, per bocca di Ben Gurion che ne divenne il primo Primo ministro, seguì la reazione di alcuni Stati arabi che cercarono invano di bloccare l’avanzata dell’esercito sionista per dare sostegno alla popolazione. Quella che conosciamo come “Prima guerra arabo-israeliana”, si concluse con la cacciata di un altro mezzo milione di palestinesi, l’occupazione di Gerusalemme Ovest e quella di oltre la metà del, poi, mai nato Stato di Palestina.In seguito le Nazioni Unite, nonostante non avessero alcuna competenza in materia (la Carta dell’ONU non conferisce, infatti, all’organizzazione titoli di arbitrarietà su questioni territoriali), volendo offrire una ricompensa alla comunità ebraica falcidiata dalle persecuzioni naziste in Europa, piuttosto che accogliere i sopravvissuti decisero inspiegabilmente di spartire la Palestina in due territori, uno da assegnare agli ebrei sionisti e l’altro da lasciare ai nativi palestinesi e di cedere, ancor più inspiegabilmente, alla minoranza ebraica che rappresentava 1/3 della popolazione totale (composta in massima parte da immigrati senza alcun vincolo reale col posto) ed era proprietaria del 6-8% delle terre palestinesi, il 56% della regione. Cosa che non era, tuttavia, abbastanza a soddisfare i piani coloniali dei leader del movimento sionista i quali, è il caso di chiarirlo, prospettarono fin dall’inizio la conquista di tutta la Palestina storica, Giordania e porzioni di Libano e Siria inclusi: proprio ciò che, fatalità, è successo. Le parole del più rappresentativo di essi, David Ben Gurion: “Noi dobbiamo espellere gli arabi e prenderci i loro posti”[1] e “Non esistono confini territoriali per il futuro stato ebraico”[2], e il simbolo del gruppo paramilitare terroristico Irgun (in alto) guidato dal futuro Primo ministro, nonché premio “Nobel per la pace”, Menachem Begin, rendono bene l’idea.
A quel punto, per cercare di porre rimedio ad una decisione lapalissianamente scellerata, le Nazioni Unite adottarono la risoluzione n°194 (11 dicembre 1948) che sancì il diritto al ritorno dei profughi palestinesi intimando ad Israele di facilitarne il rientro. Lo stato sionista risultò inadempiente anche questa volta e quando l’anno seguente fu decretato il suo ingresso nell’ONU con la risoluzione n°273 (11 maggio 1949), tra gli obblighi vincolanti in essa previsti per renderne efficace il dispositivo, vi era quello di ottemperare alle due precedenti risoluzioni (n°181 e n°194). Cosa fece Israele? Incassò l’ingresso nelle Nazioni Unite e si fece beffa dei suoi obblighi. Quindi, senza il bisogno di evocare le dichiarazioni di improbabili cattivoni antisemiti, Israele, risultando inadempiente su tutto, risoluzione che ne decretò la creazione in primis, ha reso da subito nullo il suo status giuridico di Nazione e quello di membro dell’ONU, ponendosi autonomamente al di fuori del diritto internazionale e mettendo, altresì, in discussione il suo diritto ad esistere. Lo ha fatto da solo! Se le norme di diritto internazionale, nate anche in seguito a quell’ignominia che fu il nazifascismo, sono state ideate per essere universali è fondamentale che vengano rispettate universalmente.
Dopodiché, senza portarla avanti per le lunghe, nei 65 anni di “gloriosa” esistenza, Israele ha violato:
- Tutti i 30 articoli della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo
- La Dichiarazione dei Diritti del fanciullo e la Convenzione contro la tortura
- La 4a Convenzione di Ginevra sul trattamento dei civili in tempo di guerra, in particolare:
- Il divieto di usare civili a protezione di truppe o avamposti militari (art.28)
- Il divieto di esercitare coercizioni fisiche o morali per ottenere informazioni (art.31)
- Il divieto di impartire punizioni collettive per reati non commessi personalmente (art.33)
- Il diritto di potersi allontanare dal territorio interessato dagli scontri (art.35)
- Il divieto per la potenza occupante di deportare civili dai territori occupati e di rimpiazzarli con una parte della propria popolazione: i coloni (art.49)
- Il diritto dei minori all’educazione e a cure appropriate (art.50)
- Il divieto di distruzione di beni e proprietà private (art.53)
- Il diritto della popolazione sotto occupazione a ricevere vettovagliamento sufficiente (art.55)
- Il diritto a garantire alla popolazione sotto occupazione le adeguate cure sanitarie (art.56)
- 445 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale dell’ONU, 19 delle quali di condanna per il programma nucleare militare sviluppato illegalmente e in collaborazione col governo razzista sudafricano in piena apartheid.
Nello stesso lasso temporale, Israele ha:
- Occupato, armi in pugno, oltre l’80% della Palestina storica (quando la Carta delle Nazioni Unite definisce illegale, per cui nulla, la conquista di territori con l’uso della forza), Gerusalemme inclusa.
- Demolito, a partire dal 1967, oltre 25.000 edifici civili palestinesi ed edificato più di 450 insediamenti illegali nei quali alloggiano 530.000 coloni israeliani abusivi, mentre aspettano il rientro in patria 5.200.000 palestinesi ancora ospiti nei campi profughi dell’UNRWA
- Approvato 1.500 reati per i quali è previsto l’arresto ed imprigionato circa 750.000 palestinesi
- Istallato 500 checkpoint nei territori palestinesi con i quali umilia e condiziona quotidianamente la vita della popolazione sotto occupazione
- Costruito un muro di separazione in Cisgiordania, dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia, alto il doppio e spesso il triplo di quello di Berlino, che una volta completato sarà lungo 730km e lascerà isolati 97 villaggi palestinesi per un totale di 373.000 abitanti.
- Fatto uso ripetuto contro i civili di armi non convenzionali, vietate da trattati internazionali (fosforo bianco, bombe a grappolo, DIME, ecc.)
Inoltre, Israele, la tanto acclamata “unica democrazia del medio oriente”: non riconosce la nazionalità israeliana sui documenti d’identità dei propri cittadini, ma li classifica in ebrei, cristiani, musulmani, beduini o drusi, con tutte le discriminazioni che ne conseguono; proibisce i matrimoni misti tra israeliani e palestinesi, pena la perdita della cittadinanza; non ha confini territoriali dichiarati, in chiara prospettiva espansionistica; non si è mai dato una costituzione, poiché garantirebbe uguali diritti a tutti i suoi cittadini ed è arrivata, tra l’altro, persino ad impedire la proliferazione della comunità ebraica dei falashà etiopi, evidentemente considerati di serie B, somministrando loro coattamente un potente anticoncezionale.
Ecco, sig. Jop, cos’è il sionismo: esclusivismo, occupazione, intolleranza, prepotenza, discriminazione, razzismo. Un’ideologia, fattasi movimento politico, condannata dai più autorevoli rappresentanti dell’autentica ortodossia giudaica per aver sconvolto l’originale messaggio ebraico infangando, così, anche la memoria delle vittime delle persecuzioni nazifasciste. Posso immaginare cosa voglia dire dover adattare la propria (teorica) integrità professionale alla linea di un direttore di testata, ma se in questi 65 anni aveste fatto il vostro lavoro, informando criticamente e su basi oggettive la gente sulla natura del sionismo e sui soprusi perpetrati senza soluzione di continuità contro la popolazione palestinese invece di assoggettarvi ai diktat di editori collusi con gruppi di potere filo-sionisti internazionali (mediatici, religiosi, politici e finanziari), l’intera questione sarebbe stata risolta in un niente e con un risparmio di vite incalcolabile. Ora, continui pure a difendere il Sionismo, ma la invito a citarne almeno un aspetto positivo: vedrà che non lo troverà!