L’estate sta arrivando al culmine ma la condanna peraltro attesa dell’uomo di Arcore e le prevedibili difficoltà del governo Letta con le voci sempre più fitte di elezioni anticipate ostacolano i lavori parlamentari e rendono più difficile l’obbiettivo urgente di cui si è parlato negli ultimi giorni, la formazione della commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso e l’inizio dei lavori attesi dall’opinione pubblica dell’Europa e del mondo intero. Così, soprattutto in un periodo difficile come quello che stiamo vivendo da quello che molti percepiscono come il difficile declino dell’età populista che ha caratterizzato in Italia l’ultimo ventennio, capita – anche in ambienti lontani dalla politica e dagli avvenimenti quotidiani più clamorosi che colgono l’attenzione dei più – di sentire discorsi di italiani e di europei che parlano del fenomeno mafioso. Si inseguono le cifre mirabolanti che ricordano i centosettanta milioni di euro che fatturano ogni anno le tre associazioni mafiose italiane. O gli ultimi episodi che hanno segnato la cronaca di luglio come quello che ha condotto alla scoperta nella capitale di una forte organizzazione ndran-ghetista, proprietaria di grandi alberghi e ristoranti o alla cattura di uno dei più famosi narcotrafficanti come Roberto Pannunzi definito l’Escobar italiano , estradato il 6 luglio scorso dalla Colombia, che ha portato in giro per il mondo, con varie destinazioni tra cui l’Italia, molte centinaia di chili della droga più diffusa nel mondo per i bisogni di un pubblico di consumatori abituali di medio e alto livello, sempre più diffuso e tale da pagare la cocaina con denaro sonante. E la prima osservazione che mi viene da fare, è l’indicazione dell’aura di leggenda che circonda ancora, più di vent’anni dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino, ora che il presidente del Senato è Piero Grasso, a lungo procuratore nazionale antimafia, e la difficoltà per la maggior parte degli interlocutori che ondeggiano tra il desiderio di comprendere meglio l’identità del fenomeno mafioso, delle sue caratteristiche di impresa illecita, e presente nella società anche se non la si percepisce apertamente (quell’impresa mafiosa di cui hanno parlato in tempi diversi e recenti sociologi come Pino Arlacchi, Roberto Catanzaro, Diego Gambetta, e, da ultimo, Nando Dalla Chiesa in un libro appena uscito con lo stesso titolo presso Cavallotti University Press che consiglierei, senza esitazioni, a miei migliori studenti) e un alone di leggenda nera ancora forte, e persino attraente, che circonda i personaggi maggiori della storia per così dire epica della mafia, almeno fino alla cattura dei suoi capi maggiori. E dico questo perché ancora oggi ci sono due punti fermi da cui bisogna partire per ricostruire le vicende della mafia siciliana, oggi sopravanzata – in termini di fatturato e di potenza – da quella calabrese ma autrice, senza dubbio, di alcune tra le imprese più clamorose per violenza e per le vittime colpite, a cominciare dalle stragi del ’92-93, dall’attentato già preparato allo stadio olimpico di Roma il 1 ottobre del ’93 e di altri attentati di cui non si è purtroppo ancora conosciuta la storia.
In particolare mi è accaduto di leggere in questi giorni La mafia non lascia tempo (Rizzoli editore) di Anna Vinci, già autrice di saggi interessanti di qualche anno fa sulla loggia massonica P2, che ha ricostruito con Gaspare Mutolo, a lungo braccio destro di Riina, negli anni del lungo dominio esercitato dal corleonese all’interno di Cosa Nostra fino alla drammatica cattura del 15 gennaio 1993 a Palermo e il trasferimento nel carcere milanese di Opera. Mutolo, per chi non lo conoscesse, è stato il collaboratore di giustizia che ha incontrato il giudice Paolo Borsellino qualche giorno prima della strage di via d’Amelio in cui è morto il magistrato palermitano il 19 luglio 1992 e si è dissociato da Cosa Nostra una settimana dopo raccontando alla procura di Palermo tutta la sua storia, gli oltre venti omicidi commessi nell’ultima fase della sua carriera criminali, i metodi e la visione propria del capo mafioso di cui era luogotenente riconosciuto.
Il racconto di Mutolo è interessante da almeno due punti di vista. Il primo è che dal libro emerge con chiarezza un elemento che anche per chi scrive è essenziale per ricostruire le caratteristiche di fondo del fenomeno mafioso e che potremmo definire come i metodi di governo al suo interno e di azione nella società. Dalla narrazione dell’autrice, fondata sulla testimonianza dell’ex mafioso, emerge con chiarezza che Riina è stato un capo solitario e assoluto, attento ad eliminare sistematicamente tutti i possibili concorrenti alla leadership, senza pietà, disposto a sacrificare al suo dominio qualunque altra ragione, che non ha mai conosciuto o praticato parole d’ordine come amicizia o lealtà nei confronti degli altri mafiosi come di tutti i compagni di avventura.
Il secondo elemento messo in luce dalle pagine del libro è la presenza frequente di agenti dei servizi segreti o comunque di apparati dello Stato che entrano in gioco durante le imprese di qualche rilievo e fanno un gioco il più delle volte ambiguo o comunque di oscura direzione. Da questo punto di vista c’è da chiedersi se una coalizione – come quella di centro-sinistra – non debba porre tra gli obbiettivi primari quelli di una bonifica di territori non chiari come quelli che attengono all’azione dei servizi o di altri apparati in vicende legate alle mafie e non debba puntare a un potenziamento dell’azione istituzionale contro le mafie in questa legislatura e, dunque, prima che si possa arrivare a una liquidazione anticipata di essa.