La voce strilla nel telefono cellulare più forte della musica che ogni notte invade via Roma. È una donna che parla, anzi grida per riuscire a farsi sentire. È insieme ad una amica proprio dietro di noi. Accento napoletano, trucco marcato, vestite per una notte d’estate, in vacanza a Lampedusa. Un cellulare all’orecchio l’altro in mano con il flash acceso. Riprende davanti a se e balla mentre grida con un tono un po’ tremolante come fosse certa di vivere un evento, un momento che sarebbe di quelli buoni per finire in televisione: “ci sono i clandestini che ballano felici e contenti! Noi siamo qua con loro e stiamo ballando!” Lo grida e lo ripete più volte mentre dirige quel fascio di luce su quei sei, forse sette ragazzi, anzi ragazzini, che si mescolano nella folla di fronte al piccolo palco che fa ballare tutta la strada. One love one heart, let’s get together and feel all right, le parole di quella musica quei sei, forse sette ragazzini le conoscono bene. E le cantano a squarciagola mentre improvvisano passi di danza sotto i flash dei cellulari che si moltiplicano. Ora sono tre, ora cinque, tutti concentrati sull’evento. Hanno lineamenti delicati, ben vestiti, anche loro come fossero in vacanza, sanno di essere al centro dell’attenzione. Ma, in fondo, sono solo ragazzini che si divertono e ballano insieme ad altri ragazzini. I sorrisi si allargano e la musica si disperde nei vicoli dell’isola.
Forse è questa l’integrazione, chissà. Certamente è una bella serata.
È un po’ di giorni che se ne vedono in giro per l’isola. Piccoli gruppi di persone che hanno appena attraversato il Canale di Sicilia e ora si tengono per mano mentre girano curiosi per Lampedusa. Sono uomini, donne, tutti molto giovani. Si fermano al bar delle rose per prendere il gelato e sentire il sapore freddo di quel posto che vogliono sia solo di passaggio. In fondo sono un po’ come i turisti in questo: Lampedusa la vivono come un luogo dove fermarsi solo per poco tempo. E li trovi seduti ai tavolini di piazza Libertà a bere coca cola in mezzo ai tedeschi e ai bergamaschi. E anche i loro arrivi vanno ad “ondate”, e anche per le loro presenze c’è l’alta e la bassa stagione. E vederli spendere soldi al bar o sulle bancarelle di via Roma vestiti dignitosamente, senza la tuta verde che distribuiscono al centro di accoglienza, fa un certo effetto. Oggi soprattutto riescono a confondersi perché l’isola è affollata come non è mai stata. Il 35 per cento in più di turisti rispetto all’anno scorso, qualcuno azzarda 400 mila presenze.
Questa si che si può chiamare invasione.
Erano circa le dieci di martedì mattina. La sabbia bianca della spiaggia della Guitgia non si riusciva a distinguere per quanta gente c’era, stipata sotto gli ombrelloni blu. Il sole a picco, il cielo azzurro, l’acqua trasparente con i suoi colori tra il turchese ed il verde smeraldo, e le sogliole che spariscono in una nuvoletta quando i piedi dei bagnanti si avvicinano troppo. In lontananza rimbombava un coro che nessuno riusciva a comprendere bene. I ragazzini in costume restavano immobili con il gelato a colargli sulla pancia, mentre si avvicinava il corteo che saliva dal molo Favaloro e riempiva tutta la curva della strada e non sembrava voler finire. Brandivano striscioni e gridavano parole difficili da comprendere, le mani ben aperte alzate verso il cielo. Davanti a tutti un bimbo di sei o sette anni con un piccolo cartello ancora troppo lontano per riuscire a leggere cosa ci fosse scritto. Poi qualcuno ha creduto di capire: gridavano no fish. La spiaggia della Guitgia e i clienti degli alberghi affacciati sulla caletta hanno tirato un sospiro di sollievo, pensavano si lamentassero per il cibo del centro di accoglienza. Era già successo nel 2011 quando i migranti erano settemila e dormivano ovunque, arrivati soprattutto dalla Tunisia. Ma allora si parlava di muffa e quel riso dal sapore disgustoso rischiava di provocare una vera rivolta. Stavolta, invece, erano infinitamente di meno. Qualcuno ha iniziato a dire a quei trecento migranti che avevano attraversato l’isola in corteo: “se non volete pesce, allora mangiate carne!”. Ma quello che gridavano non era fish, era fiche d’identité, in francese. La protesta degli eritrei di Lampedusa diceva che non vogliono farsi prendere le impronte digitali altrimenti rimangono incastrati in Italia, perché il regolamento di Dublino dice che è il paese dove si approda a gestire ed eventualmente approvare la richiesta di asilo che si avvia con l’identificazione, foto e impronte. Andare via dopo è impossibile, chi ci prova viene identificato e rispedito nel paese dove è stata accolta, o dove è in corso di valutazione la richiesta d’asilo. Però gli eritrei non è qui che vogliono restare. Lo dicono con grande chiarezza che vogliono andare in nord Europa, in Olanda, Norvegia, Svezia, Danimarca a chiedere asilo. Sanno che in quei paesi hanno diritto ad una casa, un sussidio e maggiori opportunità di vivere in modo dignitoso. Qualcuno arriva già con la colla sulle dita, altri si bruciano i polpastrelli o li tagliano in superficie per non essere identificati.
Si leggeva chiaramente sul cartello che teneva in mano quel bambino in testa al corteo: no finger print.
La protesta degli eritrei è andata avanti per 24 ore. La notte l’hanno trascorsa in piazza, nei giardini di fronte la chiesa. Erano tutti seduti sulla scalinata a trattare con il funzionario di polizia che cercava di convincerli parlando un inglese che rischiava di complicare le cose: “I pretend that you go back to the center…” Il giorno dopo, a mezzogiorno, quei trecento erano ancora lì, sparpagliati nei pochi punti d’ombra della piazza, schiacciati contro il muro, sotto le aiuole. E lì sono rimasti finché è arrivato il funzionario della questura con il messaggio che tutti aspettavano: “potete partire senza lasciare impronte digitali nel centro di Lampedusa”. E così hanno raccolto le loro cose, i bambini sono saliti in braccio ai genitori, in due avevano il compito di raccogliere tutte le cartacce di una notte di protesta. Poi si sono avviati verso il centro di accoglienza che ancora porta il ricordo di proteste ben più violente, con il fuoco che si mangiava un intero padiglione lasciando agibili solo la metà dei seicento posti letto. Scortati sotto il sole da un paio di carabinieri e un paio di poliziotti sbuffanti, quegli eritrei pensavano di aver vinto la loro battaglia e di poter continuare il viaggio, magari di riuscire a dileguarsi una volta arrivati in Sicilia, per non essere costretti a lasciare le impronte digitali. Invece di strada non ne hanno fatta molta, sono arrivati senza identità solo fino a Porto Empedocle dove sono stati tutti identificati, gli hanno preso le impronte e sono stati foto segnalati.
È la legge che lo pretende. Una legge europea, il trattato di Dublino che non consente scelta a chi arriva e non lascia possibilità diverse al paese che per primo accoglie.
Quella notte Lampedusa sembrava fosse proprio sotto la via lattea. C’erano milioni di stelle nel cielo mentre sulla terra la trattativa andava avanti pacificamente e gli unici incidenti erano quelli lessicali. I turisti osservavano curiosi ai margini della piazza, qualcuno scattava fotografie mentre da lontano si avvicinavano attraenti le musiche della notte di Lampedusa, e i piedi iniziavano a muoversi da soli. Quei sei o sette ragazzini si sono avvicinati timidamente al palco di fronte al pub. Erano la musica che conoscevano ma forse soprattutto gli sguardi sorridenti delle ragazze a rassicurarli, finché uno di loro ha iniziato a muoversi a piccoli passi verso il palco per iniziare a ballare in via Roma, in una sera d’estate, a Lampedusa.