E’ difficile stabilire addirittura il numero delle vittime. Ma i nuovi, violenti scontri in piazza Tahir hanno portato l’Egitto nel caos. Secondo osservatori neutrali i morti sono 300 ed è la stima più attendibile, rispetto ai 56 riferiti dal governo provvisorio e ai 500 addirittura diffusi da al Jazeera che appoggia apertamente i Fratelli Musulmani che sostengono Morsi. Ma ormai è un tentativo scoperto del Qatar di manipolare l’informazione che riguarda le rivolte, così come ha fatto in Libia e poi in Siria. Certamente il clima è ormai da guerra civile con i militari da una parte e l’opposizione salafita dall’altra. Il governo provvisorio guidato dai militari con a capo il giudice della corte costituzionale Adli Mansour ha dichiarato lo stato di emergenza per un mese. La situazione è talmente difficile e dolorosa che purtroppo si è persa anche la speranza di una soluzione da parte di El Baradei a cui era stata affidata la transizione. Proprio oggi, dopo il nuovo sangue, ha rassegnato le dimissioni. Lo ha comunicato con una lettera al presidente egiziano: “Presento le dimissioni dalla carica di vicepresidente e chiedo a Dio l’altissimo che preservi il nostro caro Egitto da tutto il male, e che soddisfi le speranze e le aspirazioni del popolo”, ha scritto il premio Nobel per la pace osservando polemicamente che “c’erano opzioni pacifiche per risolvere la crisi”. Lo scontro, oltre che politico, scatenatosi il 3 luglio con la deposizione di Mohamed Morsi, si sta trasformando in una vera e propria “guerra santa”. Ieri i Fratelli Musulmani hanno incendiato tre chiese copte ma è da almeno due anni che ogni sera danno la caccia ai cristiani, come ho visto personalmente al Cairo. Preoccupa piuttosto che nelle file dell’opposizione abbia un ruolo dichiarato la corrente jihadista salafita. Lo stesso Mohames Al Zawahiri, fratello del leader di al Qaeda, ha appoggiato apertamente la rivolta, invitando a combattere “in nome di Allah”. La contrapposizione religiosa costituisce il maggior rischio che neppure le annunciate nuove elezioni potranno appianare. Intanto, fra le vittime dei nuovi scontri ci sono anche due reporter: Il 62enne Mick Deane di Sky news, e la giovanissima (26 anni) Habbaah Abdelaziz di Golf news, emittente degli emirati arabi. Vanno ad aggiungersi al sacrificio di Ahmed Assem el Senoussy, un fotoreporter ucciso a luglio durante la ripresa degli scontri. Una situazione così difficile per gli operatori dell’informazione da scatenare un dibattito all’interno del consiglio di sicurezza dell’Onu. L’ultima volta che se ne è occupato era il 2006 quando venne approvata la risoluzione 1738 per una protezione dei giornalisti in zone di guerra. “La violenza globale contro i giornalisti ha registrato un peggioramento e c’è stato un aumento particolare degli omicidi e arresti sviluppatisi dalle situazioni di conflitto”, ha dichiarato un alto rappresentante dell’Unesco. I dati sono preoccupanti. Soltanto nel 2012 sono rimasti uccisi circa 121 giornalisti, più di 200 sono stati messi in carcere e molti altri sono stati presi di mira perché scomodi al “sistema”. Una scia che va interrotta.