E’ arrivato in aula , alla Camera dei deputati, il testo sulla diffamazione a mezzo stampa, varato nei giorni scorsi dalla commissione Giustizia. Relatori il pdl Costa e il pd Verini. Il primo «colomba» nella destra, il secondo assai attento ed equilibrato. Dopo le «baruffe chiozzotte» nella puntata di fine legislatura al Senato, surdeterminate dal caso Sallusti, ora il clima parrebbe migliorato. Wait and see, dicono i saggi. Infatti, pur essendoci il sottotesto del caso del direttore e del giornalista di «Panorama» condannati alla detenzione, il tema purtroppo eccita gli spiriti animali del «basso» del sistema politico. Avvezzo, nella sua maggioranza culturale, a considerare male la critica e persino grave l’informazione scomoda. E via con le querele. Si può dire che l’universo politico, amante in molti casi della strategia del segreto, subisce la libertà di comunicazione e pretende il rigoroso rispetto del «vero» dai lavoratori dell’informazione: mentre per sé si accontenta, nella migliore delle ipotesi, del verosimile. Non è un caso che stiamo ancora discutendo di modifiche della legge n.47 del 1948: dal punto di vista mediologico molti secoli fa. E sì, in quelle norme si prevedeva il carcere, secondo una logica punitiva che ha sempre accompagnato la legislazione di settore. Intendiamoci. Nessuno potrebbe mai difendere la diffamazione (l’offesa della reputazione di una persona assente, comunicando con due o più persone…), ma è bene ricordare che non si deve pensare ai casi limite – come fu quello di Sallusti- bensì a quella vasta zona intermedia «fuzzy», in cui il racconto della verità si scontra contro muri di gomma infiniti e se non si forza un po’ non si tira fuori nulla. Quanti precari, pagati una manciata di euro, vengono portati in tribunale (con richieste pazzesche di risarcimento) dalla parte – parliamo dei potenti, non degli ultimi che poco interessano- che si ritiene offesa. E’ la censura indiretta, che si unisce a quella diretta e brutale. Del resto , l’Italia è al 57° posto della classifica mondiale sulla materia. Ben più avanti è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che andrebbe recepita compiutamente nel nostro ordinamento. Tant’è che nel Regno Unito la diffamazione a mezzo stampa è stata depenalizzata, costituendo un mero (non banale) illecito civile. Questo si poteva immaginare, puramente e semplicemente. Tant’è. Il testo arrivato al dibattito generale nell’aula della Camera (emendamenti ed eventuale approvazione a settembre) è un deciso miglioramento: via il carcere, introduzione della possibilità di estinguere il reato con la fedele pubblicazione della rettifica, alleggerimento della pressione sulla rete. Su quest’ultimo punto è sta evitata la corrida forcaiola e irresponsabile dell’ esperienza precedente, ma un chiarimento di fondo va fatto. Sono omologate ai mezzi tradizionali le testate on-line registrate, quindi sono esclusi i blog, i siti, e così via. Non per caso la Suprema Corte ha costantemente escluso simile equivalenza. Tra l’altro, la recente acquisizione del Washington Post da parte del proprietario di Amazon o la variegata sequenza di scalate e crisi del mondo digitale impongono una specifica, urgente scelta di legiferare in modo specifico sui nuovi media. Attenzione alle facili equiparazioni, visto che le culture della rete sono affatto diverse. Due giorni di tempo (la rettifica) per un quotidiano o una televisione sono una cosa; per l’on-line un’altra, vista la quantità potenziale di richieste. Ci si pensi. Così andrebbe ritoccato il punto che tocca il libro (ristampe e diffusioni in rete sono infinite) e chiarito il capitolo finale sul segreto professionale, che salva i pubblicisti ma pare irrigidire la sostanza. Veniamo, infine, al punto di maggiore criticità. E’ scomparso il tetto del risarcimento, mentre la multa arriva a 60.000 euro. Al contrario, la querela temeraria ha una sanzione piccola piccola. Insomma, un passo avanti, ma attenzione a non farne due indietro.